C’è nell’aria parecchia paura per la trasferta di Bologna, qualcosa di inspiegabile tecnicamente e che si comprende solo se si ripensa alle quattro rimonte subite nell’ultimo mese.

Bisognerà essere arrabbiati, cattivi agonisticamente, non nervosi.

E qui davvero deve venire fuori il lavoro di Pioli, perché il voltaggio di uno spogliatoio dipende in gran parte dal proprio allenatore.

Non è colpa del tecnico se un giocatore strapagato sbaglia un gol fatto, ma sulla testa dei giocatori il suo lavoro incide moltissimo e nella gara che precede la partita della partite bisognerà non sbagliare una mossa sul piano psicologico.

La formazione, in questo contesto, è quasi un dettaglio perché siamo superiori al Bologna e abbiamo l’obbligo di giocare per vincere.

Mi trovo in una fase della vita in cui spesso pubblicamente raccolgo più di quanto semini ed avendo pedalato per decenni a testa bassa provo pure un leggero imbarazzo.

Ultimo esempio, il Tribute Band splendidamente organizzato venerdì sera da Paolo Boccia, che sul palco insieme a Giorgia Palmas mi saluta e invita le migliaia di spettatori presenti a tributarmi un inaspettato applauso che mi regala orgoglio e soddisfazione.

Ma non avevo fatto niente, se non essere lì!

E allora ancora una volta mi è venuto da pensare a come sarebbe stata la mia vita senza la Fiorentina, amore puro dell’infanzia e dell’adolescenza, poi diventato strumento di lavoro.

Devo moltissimo a lei: mi ha regalato una fama che non saprei dire quanto meritata e che spero senza falsa modestia di meritare con la mia disponibilità e negli incontri quotidiani con sconosciuti che mi salutano e mi chiedono della viola.

La mia massima aspirazione negli anni duri e lunghi delle porte sbattute in faccia era essere assunto a La Nazione e scrivere di qualsiasi cosa, altro che popolarità. Mi bastava la firma, traguardo per me fantastico, tanto che il grande Sandro Picchi, che mi ebbe come borsista proprio a La Nazione, disse che avrei firmato anche le lettere anonime e non è che avesse torto…

Sarei un bugiardo se dicessi che tutto questo non mi fa piacere, ma ho sempre avuto ben chiaro in testa che è qualcosa che può finire da un momento all’altro.

La chiamo “sindrome da Pippo Baudo”, nel senso che bisogna essere ben preparati a quando le luci della ribalta si spengono o non si è più in grado di andare in onda, altrimenti si entra in depressione.

E comunque, davvero: grazie Fiorentina.

Ormai ci sono degli evergreen  nel commentare la Fiorentina di cui non è possibile fare a meno.

Uno tra i più gettonati riguarda l’assenza dei Dalle Valle: spariti, volatilizzati, dispersi nelle Marche.

Ovviamente se avessimo vinto a Frosinone e contro il Cagliari qualche settimana fa Diego e Andrea potevano starsene a Casette d’Ete a giocare a tresette senza che nessuno alzasse un dito sul computer o desse fiato alle trombe.

Sinceramente non ho capito bene cosa dovrebbe fare Andrea (Diego è fuori concorso da anni)?

Abbiamo pareggiato quattro partite di seguito e va bene, ma non è che siamo precipitati in zona retrocessione, siamo sempre lì, anche se col morale più basso e poca vglia di sognare.

E quindi cosa avrebbe dovuto dire Della Valle? E quando?

E se per caso prendesse il posto di Pioli e parlasse ad ogni vigilia senza dare la formazione avremmo qualche punto in più in classifica?

Comunque sia: non ci sono più le mezze stagioni, Venezia è bellissima, ma non ci vivrei, le generazioni di oggi sono peggio di quelle di ieri e…i Della Valle sono spariti.

Il giornalista pubblicista Lugi Di Maio e il percettore di un discretto reddito da quotidiano (leggi alla voce Il Fatto) Alessandro Di Battista hanno perso un’ottima occasione per attaccare la categoria alla quale appartengo da 38 anni e che spesso non ho sopportato per via quell’aria da illuminati di sinistra, quel senso di superiorità che spesso circonda noi pennivendoli.

Potevano argomentare in modo diverso i motivi della vertiginosa caduta nella considerazione generale di un ordine professionale che racchiude sotto la stesso tetto chi realizza reportage coraggiosi rischiando la pelle e chi fruga tra le lenzuola di Belen.

Non mi pare proprio che nel raccontare le avventure e disavventure di Vriginia Raggi sia stato usato un metro diverso rispetto al bunga bunga di Berlusconi o ai coloriti colloqui tra Renzi padre e Renzi figlio.

C’è poi questa odiosa abitudine di mettere tutti sullo stesso piano, come se il mestiere di giornalista non fosse per la sua stessa natura qualcosa di molto personale, in cui ognuno dovrebbe prendersi le proprie responsabilità.

Tutti noi abbiamo un padrone, che sia un partito (trovo penoso il finanziamento pubblico ai giornali)  o un industriale, le anime belle mi fanno ridere.

Nel mio caso sono i padroni gli inserzionisti pubblicitari, un mondo variegato che mi consente molta più libertà rispetto alla stragrande maggioranza dei colleghi, ma è chiaro che se per una scelta di cuore cominciassi a parlare dei problemi degli impianti sportivi fiorentini invece che della mancata intesa tra Chiesa e Simeone l’audience calerebbe, gli sponsor mi saluterebbero e io dovrei chiudere il Pentasport.

Per quanto riguarda l’essere puttane, dipende dall’inclinazione personale, come in tutti i campi della vita.

Nel nostro mestiere c’è quello o quella che soffre nel vivere una certa situazione e quello e quella che s’offre, pur di avere uno scatto di carriera o una firma in più.

Però succede ovunque, non solo dalle nostre parti.

Se tre indizi fanno una prova, quattro diventano una quasi certezza: qui c’è un problema di testa.

Non si possono subire quattro rimonte consecutive, di cui tre con Frosinone, Cagliari e Torino, non Juve, Napoli e Inter.

Mancano dei rilievi statistici, ma siamo ad un piccolo record viola di cui avremmo fatto volentieri a meno.

La storia è più o meno la stessa: sbagliamo il colpo del due a zero e gli altri pareggiano, normale no?

Questa sosta è piuttosto avvelenata, ci siamo involuti sul piano del gioco e domani sera possiamo essere decimi.

Ci affidiamo sempre e comunque a Chiesa, mentre Gerson e Pjaca non inventano e nemmeno si dannano l’anima.

E Simeone? Uno spunto in 85 minuti, più la rabbia (con se stesso, immagino) per una situazione che sta diventando cronica.

Il primo acquisto di gennaio deve essere per forza un attaccante che dia garanzie, in appoggio o in sostituzione del Cholito.

Ero molto perplesso quando ho letto che Francesco Guccini aveva accettato il pressing di Vecchioni e quindi cantato insieme a lui in “Ti insegnerò a volare”.

Pur essendo molto dispiaciuto per il suo addio alla musica ormai vecchio di  sei anni, mi piaceva tantissimo il suo andarsene prima che lo chiedessero gli altri: una lezione di vita che ho sempre apprezzato e che sto cercando di applicare al mio lavoro.

Quell’accettazione mi era quindi sembrata una debolezza del grande Francesco, pur avendo riso nel racconto di Vecchioni che spiegava quanto fosse complicato farsi dire di sì.

Poi ho cercato il brano su Youtube e mi sono lasciato andare: bellissimo.

E sentirlo cantare ha fatto vibrare dentro di me qualcosa che assomiglia tantissimo all’emozione.

Cercatelo e ascoltatelo, non solo lui, ma anche Vecchioni, altro esempio di come mi piacerebbe arrivare a 75 anni.

Con questa storia del settimo posto rischiamo di afflosciarci sotto tutti i punti di vista.

Il primo a sbagliare fu in estate Andrea Della Valle, perché il presidente (o proprietario, ma cambia poco) di una squadra come la Fiorentina ha il diritto-dovere di puntare in alto, di essere più visionario dei suoi colonnelli. Sono certo che oggi non direbbe più la stessa cosa.

Quella dichiarazione, insieme ovviamente ad un mercato non certo da squadra che lotta per lo scudetto, ha lasciato nell’aria un profumo impegatizio che non mi piace per niente.

Come dire: si va bene, abbiamo pareggiato tre partite in cui ci hanno sempre rimontato, ma in fondo siamo ottavi, mica troppo lontani dall’Europa e dall’ormai mitico settimo posto…

Non è che si debba fare la rivoluzione perché non si vince da settembre, ma mi piacerebbe sradicare questa patina di grigiore che sembra avvolgerci un po’ tutti e che ci rende emotivamente sterili quasi come l’attacco viola.

La partita di Frosinone sembra fatta apposta per farci uscire da questa mediocrità psicologica, però bisogna sfruttare l’occasione.

Un portiere che para e un attaccante che segna, non è difficile.

Noi stiamo svezzando il portiere abbiamo perso il centravanti, a cui forse ho dato un voto fin troppo generoso sul Corriere, forse perché intenerito dall’enorme impegno che ci mette.

L’aspetto positivo è che la Roma, candidata alla Champions, è stata almeno sul nostro stesso livello, se non peggio.

Quello negativo è che ci hanno rimontato per la terza volta consecutiva e che la classifica questa sera sarà piuttosto opaca.

Tornando a Lafont, al di là dell’errore decisivo sul gol di Lafont, mi preoccupa l’insicurezza che trasmette in ogni uscita e contagia l’intera difesa, che ha nel portiere l’elemento più debole.

Non credo che si danneggi lui o la Fiorentina nel sottolineare la situazione, siamo a livelli altissimi di professionismo, non nel calcio giovanile, anche se il ragazzo ha solo 19 anni, ma se lo mettono in porta vuol dire che lo considerano pronto a sopportare lo stress del professionista.

Negli ultimi 25 anni la Roma, dal simpatico “appoggio” per npon segnare di Carnevale in poi,  ha scalato le posizioni nella speciale classifica dell’antipatia: voi in quali posizione la collocate?

E qual è la vostra personale graduatoria?

Porto Cosimo a giocare la partita dei bambini a San Piero a Sieve e scopro che l’allenatore dell’altra squadra è Claudio Merlo, uno dei più forti giocatori della storia viola e anche uno dei meno omaggiati dai tifosi.

Alle nove del mattino sta sistemando il campo con la stessa attenzione con cui mandava in gol Chiarugi e Maraschi.

Ha 72 anni e ne dimostra almeno dieci di meno: si accerta che negli spogliatoi sia tutto a posto e poi si sistema in panchina, regalando le sue perle di saggezza calcistica agli undicenni che hanno la fortuna di averlo come allenatore.

Merlo è stato uno dei più vincenti in assoluto a Firenze, con lo scudetto del 1969, una Coppa Italo-inglese e due Coppe Italia, la seconda delle quali lo vede immortalato, con la maglia del Milan appena scambiata mi pare proprio con Chiarugi, a ricevere il trofeo da un super sorridente Artemio Franchi.

Era uno dei miei idoli da bambino, mi capitò di conoscerlo quando ero un po’ più piccolo di Cosimo e mi sembrò quasi impossibile poterci scambiare due parole.

Ritrovarlo quasi cinquant’anni dopo su un campo di calcio così felice di essere ancora dietro ad un pallone ha per me quel qualcosa di magico che è poi l’essenza stessa del calcio.

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