Comportamento responsabile
Nessuno ha scritto o detto i nomi dei tre giocatori positivi, anche se tutti noi li sappiamo.
Mi sembra un comportamento responsabile della categoria, spesso messa sotto accusa e con qualche buon motivo.
Nessuno ha scritto o detto i nomi dei tre giocatori positivi, anche se tutti noi li sappiamo.
Mi sembra un comportamento responsabile della categoria, spesso messa sotto accusa e con qualche buon motivo.
Sto finendo la dotazione dei guanti, che una cinquantina di giorni fa mi pareva perfino esagerata, e ho avuto un moto di insofferenza al pensiero della coda che dovrò fare davanti al mesticatore.
Come spesso accade, sono i particolari che fanno la differenza e danno il termometro della situazione: sono chiaramente provato dai due mesi di vita diversa e va ancora una volta precisato che rientro nella categoria dei fortunati, perché lavoro dodici ore al giorno e mi nuovo.
Quello che fino all’inizio di marzo ci sembrava scontato, i nostri piccoli combattimenti, l’egoismo “sdrucciolo che abbiamo tutti quanti”, adesso sembrano situazioni lontane, ma fatichiamo ad abituarci mentalmente al cambiamento.
Ho preso il caffè al bar, però fuori, nel bicchierino di plastica, che non sopporto, sperando nella strizzata d’occhio di chi stava dietro al banco che non è arrivata e che mi avrebbe ammesso alla vecchia tazzina e al bancone.
Giusto così, anzi giustissimo, però il riflesso condizionato c’è stato e continuerà ancora, intanto vado a prendere i guanti.
…io avrei l’età di Cosimo: come sopporterei il dover stare a casa e non andare a scuola e non vedere gli amici?
Non ero certo uno che faceva casino, semmai rompevo per le mie smanie calcistiche e giornalistiche, ma come avrei ad esempio retto il non andare a giocare a ping pong per interi pomeriggi?
E ancora: come avrei vissuto 24 ore su 24 il casino fuori misura che c’era un una famiglia di quattro figli (in casa di Cosimo sono in tre e senza il babbo: meglio o peggio?) da cui cominciavo a prendere le distanze?
Mah, forse non ci rendiamo bene conto di cosa significhi per gli adolescenti e per i giovani essere bloccati da due mesi senza sapere quando finirà: noi ne saremmo stati capaci con questa loro tutto sommato sapiente arrendevolezza?
Finirà, perché prima o poi finirà, e poi?
Cosa resterà di questo tempo sospeso, di questo servizio militare esistenziale?
A me rimarrà la sensazione della ripetitività delle mie giornate, con la sensazione di fare qualcosa di utile, sia nella professione che per le persone che amo.
Non saranno tutti ricordi negativi: alla fine il fatto di essere stati in questi mesi più giovani (o meno anziani) declinerà tutto in uno sfondo quasi nostalgico, perché non sono stato toccato negli affetti o ferito dalla malattia.
Sarà stato un periodo unico, qualunque sia la sua durata, ci saranno libri e film, certamente i nostri figli e i nostri nipoti ne avranno una traccia indelebile, come accadde a me nel 1966 nei giorni dell’alluvione.
Perché fare gli ipocriti?
Il calcio da decenni non è più uno sport, o almeno non è solamente uno sport, ma molto di più.
E’ un’industria anomala, dove chi sbaglia paga pochissimo, dove non esistono le normali regole economiche e che infatti non a caso ha creato una voragine a livello di debito. Intanto però permette a decine di migliaia di persone di vivere col pallone (e noi giornalisti sportivi siamo tra quelli, tanto per essere chiari).
E’ qualcosa che assomiglia molto allo spettacolo e in questo momento ci sarebbe un gran bisogno di tornare a vedere le partite, di discutere su un rigore dato o non dato, sui furti della Juve.
Il calcio oppio dei popoli? In qualche misura sì e davvero sia benedetto quel Paese che non ha bisogno di eroi, ma in questo momento serve tutto pur di uscire dalla depressione che ci sta avvolgendo.
Inutile sottolineare come debbano essere salvaguardati tutti i protocolli legati alla salute, ma se la serie A se lo potesse permettere non troverei così immorale il fatto che a giugno si torni a vedere il campionato.
Qualcuno cominci a pensare a cosa possiamo o non possiamo fare dal 4 maggio in poi.
Con una certa velocità, perché poi andrà comunicato e interiorizzato da noi che stiamo facendo fatica ad attraversare il deserto della quarantena.
Sarà possibile viaggiare da un Comune all’altro?
Si potrà andare in altre Regioni al di là delle esigenze lavorative?
Qualcuno decida, grazie.
Avere una gran memoria è una fortuna e un problema.
Una fortuna perché obiettivamente mi ha permesso di cavarmela diverse volte nella vita, aggrappandomi a date e circostanze che hanno spesso stupito l’interlocutore.
Un problema, perché poi quando si accumulano le inevitabili ferite dell’esistenza tu ricordi benissimo cosa facevi uno, due, cinque, dieci anni fa quello stesso giorno e in quello stesso periodo e quindi torni a soffrire.
Ebbene, questi quaranta giorni così difficili hanno provocato nella mia testa una specie di bolla d’aria, un tempo sospeso che non avevo mai provato e che mi porta ad avere una specie di straniamento nei confronti della vita precedente.
Non vedo da oltre cinque settimane i miei figli e a casa mi comporto com’è giusto che sia con mia moglie, visto che sono un potenziale importatore dello stramaledetto virus: ogni giorno penso e faccio le stesse cose e non mi non era mai successo.
Mi sono quindi sorpreso a non avere più quella scansione esatta di ricordi o almeno non averla più con la stessa martellante frequenza di prima: è come se galleggiassi in un’orbita lontana.
Nonostante questa diversa dimensione della mia esistenza, penso e spero di conservare un briciolo di raziocinio e quindi mi considero fortunato perché posso lavorare molto e tenere il cervello impegnato.
In attesa di tornare sulla Terra, pedalo con grinta in questo assurdo presente.
Chi ha di più dovrebbe dare di più, o almeno entrate nell’ordine di idee di farlo.
Ottantamila euro loro di l’anno di reddito mi sembrano una cifra con cui si possa vivere più che bene, per questo non mi pre scandaloso fissare un contributo progressivo per chi prende più di quella cifra.
Oltretutto la proposta è limitata a due anni, non è per sempre, per questo non capisco la levata generale di scudi contro questa idea.
Temo che in molti non si siano ancora resi conto di cosa stiamo vivendo e di cosa ci aspetta.
Me ne sto accorgendo solo ora che la vita sta faticosamente riprendendo il suo corso, nell’incedere quotidiano delle nostre ultime paure.
Mi sto accorgendo che dovrò fare a meno di Rialtopulos, come lo chiamavo al telefono ed è una mancanza vera, come quella di Manuela, solo che ho dieci anni di più e molte cicatrici che nel frattempo si sono depositate dentro di me.
E sto capendo solo adesso anche di essere stato “scelto” da Alessandro come interfaccia di quel mondo radiotelevisivo che lui contemplava, annusava più o meno da lontano, ma che certo non amava certo come Stadio e la carta stampata.
Vivo tutto questo con un senso di gratitudine postuma nei suoi confronti, come qualcosa che mi era sfuggito nei 29 anni di collaborazione alla radio. E’ difficile tra maschi adulti scambiarsi manifestazioni di affetto, figuriamoci tra due come noi che tendevamo ad essere leader delle nostre tribù, però quell’affetto c’era tutto.
Adesso mi dovrò abituare ad una vita lavorativa senza di lui e alla fine mi adatterò, ma quanta tristezza solo a pensarci.
È morto stasera Alessandro Rialti e io sono più solo nel mondo del giornalismo.
Lo immagino insieme a Manuela a scherzare sulla Fiorentina e a controllare quello che faccio.
Che periodo terribile.