Non faccio parte ella schiera degli ottimisti convinti che nel giro di pochi mesi il Parlamento permetterà di fare il nuovo stadio al Franchi con annessi e connessi.

Se poi sbaglio, meglio per tutti.

Dunque Campi Bisenzio, se non ci saranno altre strade e allora sarà bene abituarsi all’idea, senza che ci siano troppi mal di pancia e dopo aver dato atto al sindaco Nardella di aver fatto di tutto per provare a stare a Firenze.

Non ci vedo niente di così penalizzante e di degradante nell’uscire dal Comune, l’importante è che ci si muova per permettere a Commisso di investire sulla Fiorentina: stare fermi vuol dire andare indietro e accontentarsi della mediocrità.

Parto dall’autocritica: non ci ho creduto abbastanza e non ci ho lavorato nel modo che sarebbe stato giusto, perché credevo che fosse un’impresa al limite dell’impossibile trovare qualcuno che volesse comprare la Fiorentina e non fosse un avventuriero.

Devo dire che quello che sta succedendo al Milan e alla Roma, oltre alle mancate e più volte annunciate cessioni di Sampdoria e Genoa, rafforza la mia idea di oltre un anno fa, però se non mi fossi fatto troppo assorbire dallo “spirito del tempo” avrei reso un miglior servizio a chi ci segue con fiducia.

Vogliamo ammetterlo con un francesismo: abbiamo avuto culo. Sì, siamo stati fortunati ad aver intercettato Rocco Commisso, sconosciuto (in Italia) miliardario americano poco considerato dalle parti di Milano sponda rossonera e letteralmente sommerso dall’amore di un popolo viola da troppo tempo in astinenza di emozioni.

Rocco ci ha cambiato dentro, scartavetrando rapidamente la patina di apatia che troppi anni di autofinanziamento e isolamento si era depositata nel cuore della maggioranza del tifo. moderato.

L’ho accomunato sin dal primo momento in cui l’ho conosciuto per empatia ed entusiasmo a Mario Cecchi Gori, che comprò la Fiorentina più o meno alla sua età, con la non trascurabile differenza che uno era nato fiorentino e innamorato perso dei colori viola e l’altro invece in Calabria con passioni calcistiche ora completamente dimenticate.

Un anno fa, al suo arrivo a Firenze, è andato in scena uno straordinario corto circuito emotivo inimmaginabile e per questo ancora più bello che è poi la molla per cercare di tornare a stare dove meritiamo di stare.

Tre pranzi al ristorante con Cristina, il caffè tutti i giorni al bar, due amici a cena a casa nostra, via i guanti durante il Pentasport, occuparsi di nuovo della macchina organizzativa/commerciale del Pentasport: è normalità?

Non proprio, ma è già qualcosa, moltissimo se penso a dove eravamo un mese fa e per natura sono portato spesso ad accontentarmi.

Certo, se riducessero gli allarmi in vista del prossimo autunno forse vivremmo un po’ meglio.

Capisco la preoccupazione, ma santo cielo, abbiamo tutti un gran bisogno di pensare positivo e comunque ma come in questi mesi le previsioni sembrano fatte per essere smentite.

Coraggio, che ripartiamo.

Qualcuno deve aver scambiato l’empatia e la simpatia di Rocco con l’ingenuità o peggio ancora con la poca intelligenza imprenditoriale.

E’ passato un anno dal suo arrivo e sullo stadio è tutto fermo all’età dellavalliana, al post cittadella viola.

Il giochino di chi abbia le colpe è inutile e perfino stucchevole, ieri erano le pastoie burocratiche della Mercafir, oggi Pessina e la lite tutta PD tra Franceschini e la Di GIorgi: ma a Commisso che gliene importa di tutto questo?

Se non lo fanno investire sullo stadio, ci ridimensioniamo e lui perde entusiasmo, poi voglio ridere pensando alle prossime campagne acquisti.

Se non vende, perché magari non c’è un altro Commisso che compra, ecco lì dietro l’angolo la parola-incubo: autofinanziamento.

E allora a me viene in mente una sola soluzione: Campi Bisenzio, dove la Fiorentina non ha affatto abbandonato l’idea di costruire lo stadio.

Ne facciamo una questione patriottica?

Ma per piacere, io amo il Franchi da quando era solo il Comunale, adoro Firenze, ma cosa volte che me ne importi se devo andare in un altro Comune a vedere e commentare la Fiorentina?

Diamoci e soprattutto datevi una regolata perché è suonata una doppia campanella, quella dell’ultimo giro e dell’allarme.

Un minuto dopo aver firmato il contratto, per una buona parte del popolo viola Beppe Iachini era già un allenatore in partenza.

Sì, gli vogliamo bene.

Ok, ci ha sempre messo il cuore, ma gli è già andata di lusso  se per una fortunata congiunzione astrale può sedersi per qualche mese su una panchina così prestigiosa.

Come se noi avessimo fatto la Champions nelle ultime stagioni e come se lui fosse un ripescato dalla piena, come diciamo dalle nostre parti.

E ora che forse il campionato riparte rieccoci con la diffidenza, stavolta quasi offensiva: “Iachini preferirebbe che tutto si bloccasse almeno è certo della riconferma”.

Ora basta.

Come tutte le persone che lavorano, Beppe Iachini merita rispetto e non è affatto vero che tema la ripartenza, figuriamoci se uno col suo carattere può avere questi tremori mentali.

Se gli siamo davvero affezionati, aspettiamo senza preconcetti i risultati e poi giudicheremo.

E’ chiaro che così non si può ripartire, o cambiano il protocollo o è impossibile pensare di giocare per poi fermare una squadra al primo positivo.

Adesso poi ci sono anche i giocatori che non vogliono andare in ritiro per cinquanta giorni, è un loro legittimo diritto, ma bisognerà spiegare bene che poi alla fine si fermano gli stipendi milionari.

A me piacerebbe che riprendessero a giocare, per vari motivi, però alla fine me ne farò e ce ne faremo una ragione e andremo avanti per altri mesi senza il calcio da vedere in televisione, che non sarà affascinante come quello allo stadio, ma è sempre meglio dell’ennesima replica della finale mondiale del 2006.

Nessuno ha scritto o detto i nomi dei tre giocatori positivi, anche se tutti noi li sappiamo.

Mi sembra un comportamento responsabile della categoria, spesso messa sotto accusa e con qualche buon motivo.

Sto finendo la dotazione dei guanti, che una cinquantina di giorni fa mi pareva perfino esagerata, e ho avuto un moto di insofferenza al pensiero della coda che dovrò fare davanti al mesticatore.

Come spesso accade, sono i particolari che fanno la differenza e danno il termometro della situazione: sono chiaramente provato dai due mesi di vita diversa e va ancora una volta precisato che rientro nella categoria dei fortunati, perché lavoro dodici ore al giorno e mi nuovo.

Quello che fino all’inizio di marzo ci sembrava scontato, i nostri piccoli combattimenti, l’egoismo “sdrucciolo che abbiamo tutti quanti”, adesso sembrano situazioni lontane, ma fatichiamo ad abituarci mentalmente al cambiamento.

Ho preso il caffè al bar, però fuori, nel bicchierino di plastica, che non sopporto, sperando nella strizzata d’occhio di chi stava dietro al banco che non è arrivata e che mi avrebbe ammesso alla vecchia tazzina e al bancone.

Giusto così, anzi giustissimo, però il riflesso condizionato c’è stato e continuerà ancora, intanto vado a prendere i guanti.

…io avrei l’età di Cosimo: come sopporterei il dover stare a casa e non andare a scuola e non vedere gli amici?

Non ero certo uno che faceva casino, semmai rompevo per le mie smanie calcistiche e giornalistiche, ma come avrei ad esempio retto il non andare a giocare a ping pong per interi pomeriggi?

E ancora: come avrei vissuto 24 ore su 24 il casino fuori misura che c’era un una famiglia di quattro figli (in casa di Cosimo sono in tre e senza il babbo: meglio o peggio?) da cui cominciavo a prendere le distanze?

Mah, forse non ci rendiamo bene conto di cosa significhi per gli adolescenti e per i giovani essere bloccati da due mesi senza sapere quando finirà: noi ne saremmo stati capaci con questa loro tutto sommato sapiente arrendevolezza?

Finirà, perché prima o poi finirà, e poi?

Cosa resterà di questo tempo sospeso, di questo servizio militare esistenziale?

A me rimarrà la sensazione della ripetitività delle mie giornate, con la sensazione di fare qualcosa di utile, sia nella professione che per le persone che amo.

Non saranno tutti ricordi negativi: alla fine il fatto di essere stati in questi mesi più giovani (o meno anziani) declinerà tutto in uno sfondo quasi nostalgico, perché non sono stato toccato negli affetti o ferito dalla malattia.

 Sarà stato un periodo unico, qualunque sia la sua durata, ci saranno libri e film, certamente i nostri figli e i nostri nipoti ne avranno una traccia indelebile, come accadde a me nel 1966 nei giorni dell’alluvione.

 

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