Ci sarà pure una via di mezzo tra la nostra insopprimibile, e a volte insopportabile, spocchia fiorentina che ci fa pensare di essere sempre al centro del mondo e la cupa tristezza del nono posto disegnato come buon traguardo del campionato che sta per iniziare.
Commisso non lo sa, ma in questo modo sta glorificando Pantaleo Corvino, che ci accusava con qualche buon motivo di non apprezzare abbastanza i quarti posti consecutivi che ci conducevano più o meno diritti alla Champions.
Qualcosa che a pensarlo ora ci viene il dubbio di averle solo sognate certe partite a Liverpool o a Monaco di Baviera, e invece eravamo lì, e neanche troppo tempo fa.
Non si può venire a Firenze accolti come re, avere in mano la città, fin troppo genuflessa al nuovo scintillante corso economico, e dichiarare due anni dopo di essere soddisfatti se alla fine del terzo campionato si arriva sopra il decimo posto.
E va bene difendere tutto quello che si è fatto in passato, ma anche questa storia del miglior presidente americano che al primo anno in Italia ha superato tutti i colleghi di oltre Oceano ricorda abbastanza da vicino le conferenze stampa del buon Corvino che, con la Fiorentina ad un passo dalla zona salvezza, ci raccontava che comunque alla fine del girone di andata eravamo a tre punti dall’Europa.
O Iachini, che ancora nel maggio scorso rivendicava con orgoglio quanto fosse stata forte la difesa viola nell’immediato post lockdown.
Ho il massimo rispetto per Rocco Commisso, perché non fa chiacchere, ma fatti, immettendo nella Fiorentina molti soldi.
E ha ragione quando ricorda, forse con troppa insistenza, che se si aspettava gli investimenti dei fiorentini l’attesa sarebbe stata lunga infinita e inutile, ma gli consiglio bonariamente di rileggersi la storia quasi centenaria di questa squadra sorretta dall’amore indistruttibile dei suoi tifosi.
Gli stessi che appena tre anni fa insorsero inferociti quando Andrea Della Valle a Moena osò dire che il settimo posto sarebbe stato un buon traguardo.