A volte penso a cosa rimanga delle tonnellate di parole che ogni anno facciamo uscire da quel mezzo meraviglioso che è la radio.
Per esempio, quando invito tutti a pensare almeno un minuto della giornata a chi sta peggio di noi (nel mio caso il 90% delle persone che conosco e per questo sono un uomo fortunato).
Mi chiedo se queste cose che dico non siano alla fine un po’ stucchevoli, se cioè chi le ascolta non le interpreti come un puro esercizio di retorica che non costa niente a chi lo mette in pratica.
Per me invece è naturale farlo, ma il discorso va esteso alla valanga di auguri che ci scambiamo in questi giorni.
Ho sempre un retropensiero che non mi abbandona: quanti di noi si sentono obbligati a farlo e si muovono seguono regole di convivenza più o meno civile?
E poi, perché essere buoni e disponibili per convenzione una sola settimana all’anno? E le altre 51?
Intanto continuo col solito meccanismo sugli sms: rispondo solo a quelli personalizzati e non ai seriali e apprezzo moltissimo le ditte che hanno rinunciato a mandarmi il pacco natalizio per devolvere tutto ai vari istituti e/o ospedali fiorentini e toscani.
Dove il Natale è certamente meno Natale che a casa nostra e vostra.
Auguri davvero sinceri a tutti i miei compagni di viaggio.

1991/92

Gabriel Batistuta venne presentato in una serata di agosto in modo perfino esagerato, visto che prima della Coppa America era poco più che uno sconosciuto. La cosa non piacque a Dunga e soprattutto agli altri due attaccanti, Branca e Borgonovo, che si sentivano già messi in secondo piano. Ai primi allenamenti in molti scossero la testa ed effettivamente le prime uscite dell’argentino furono deludenti: Batistuta non sembrava adatto al campionato italiano perché troppo grezzo tecnicamente. Qualche giornalista fiorentino tirò fuori la definizione di “Dertycia con i capelliâ€?, che era una specie di condanna senza appello. Dopo la sua prima esibizione a San Siro, Franco Rossi sul Giorno parlò addirittura di “bidone del secoloâ€?, mentre Lazaroni lo faceva giocare solo per le pressioni societarie, ma non era affatto convinto del suo valore. Tutto questo per dire che Batistuta si è conquistato da solo il successo e che nessuno gli ha mai regalato niente. Il suo grande segreto è stato migliorarsi giorno dopo giorno, non fermandosi mai. E quando dopo poche domeniche cominciò a segnare a raffica, anche chi non lo amava nello spogliatoio capì che doveva fare i conti con lui. Bati non ha mai cercato rivincite personali, ricordandosi però sempre di chi gli è stato accanto in quei difficili giorni dell’autunno 1991: Beppe Iachini, Gian Matteo Mareggini e Massimo Orlando.

IO E BATI
L’ultima volta che ci siamo visti è stata quando la Roma giocò a Firenze, nel febbraio 2002. Stavamo quasi per andare a sbattere l’uno contro l’altro ed era quindi impossibile ignorarci, così abbiamo alzato tutti e due lievemente la testa in un sofferto cenno di saluto. Questa “guerraâ€? con colui che considero il miglior giocatore della storia della Fiorentina, almeno da quando vado allo stadio, è uno di quei passaggi spiacevoli e perfino dolorosi della mia piccola storia professionale.
Eppure l’inizio era stato splendido. Nel febbraio 1992 venni incaricato di andarlo a prendere all’allenamento per accompagnarlo a La Nazione, dove avrebbe condotto un filo diretto con i tifosi. In macchina parlammo di tutto, stabilendo una confidenza che è andata poi rafforzandosi nei suoi primi anni fiorentini. Ricordo le sue partecipazioni al Ring dei Tifosi, quando organizzavamo la trasmissione registrata apposta per lui, oppure il regalo della cassetta audio con dentro i miei urli per i suoi gol e tanti altri piccoli episodi. La frattura tra noi ha una precisa collocazione temporale: metà luglio 1997.
Batistuta non voleva rimanere alla Fiorentina, perché altre squadre gli avevano promesso almeno il doppio di ingaggio e così si barricò in un albergo a Roma, in preda ad una vera e propria crisi di nervi: o gli davano più quattrini o considerava chiusa la sua esperienza in viola. Con la radio realizzammo una diretta fiume dall’hotel dove i Batistuta (c’era anche il padre) ricevevano i dirigenti in un crescendo quasi insostenibile di tensione. Ad un certo punto prese la parola Rinaldo e disse quello che tutti pensavano: «ma che crisi nervosa! Questo qui vuole solo più soldi e non gliene frega niente se ha un contratto già firmato, così come non gliene frega niente della Fiorentina». Apriti cielo! Tutti sentirono quell’intervento, anche e soprattutto gli amici di Batistuta. Alla prima uscita stagionale della Fiorentina di Malesani, io ero in campo per realizzare le interviste di Telemontecarlo e quando mi avvicinai a Gabriel, lui rispose che con me non avrebbe parlato a causa delle dichiarazioni di Rinaldo, che però, a quanto ne sapevo, non era ancora diventato il proprietario di Tmc.
Nell’estate successiva, il tormentone del rifiuto di tornare a Firenze si ripeté ed io moraleggiai un po’ sulla storia dei contratti da onorare e sul fatto che i soldi non sono tutto nella vita. Avevo ragione nella sostanza, ma ancora non sapevo cosa mi sarebbe capitato quaranta mesi dopo, con certa gente che pensava ai quattrini quanto e più di Batistuta, valendo però un decimo del campione argentino. Le cose stavano precipitando e così una sera di ottobre, esasperato da questa polemica, mi misi a sedere accanto a Bati nel viaggio aereo di ritorno da Lecce a Firenze. Parlammo per un’ora, tra la curiosità generale dei suoi compagni e degli altri giornalisti, arrivando ad un compromesso: se Rinaldo avesse chiesto scusa per aver tacciato Batistuta di venalità, i nostri rapporti sarebbero tornati normali. Il che, tradotto nella quotidianità, avrebbe voluto dire che smetteva di chiedere ai giornalisti della mia radio e della mia televisione di passare le sue interviste solo se io non fossi stato presente alla trasmissione. Si poteva addirittura ipotizzare che potessi ospitarlo in qualche programma e che i compagni di squadra del suo giro, chissà, forse avrebbero ricominciato a salutarmi anche quando lui era nei paraggi. Bati voleva inoltre che l’intervento “riparatoreâ€? avvenisse in un momento di grande ascolto. Non fu facile convincere Rinaldo a chiedere scusa, ma poi accettò, per il bene della radio e, credo, soprattutto per affetto nei miei confronti. Il “mea culpaâ€? andò in onda in un dopo partita, mentre eravamo collegati da Ginevra per seguire la sentenza relativa alla bomba carta di Salerno. Registrammo l’intervento e la cassetta fu portata dall’incolpevole Ceccarini al cospetto del divino capitano. «Questa me la metto sulle pa…», rispose Batistuta, decretando di fatto la fine dei nostri rapporti.
Nelle sue ultime stagioni fiorentine ci sono stati momenti perfino comici, tipo quando Bati aspettava in macchina fuori dagli studi di Canale Dieci la moglie Irina. Lei stava imparando a fare televisione e lui non voleva in nessun modo entrare negli studi, cioè nel territorio del “nemicoâ€?. Oppure quando depennò personalmente il mio nome dalla lista degli invitati alla festa del suo viola club, tra l’imbarazzo dei suoi “sottopostiâ€?, che proprio a me si erano rivolti per pubblicizzare al massimo la manifestazione. Certo non sono stato troppo furbo a rimarcare tutte le volte che qualcosa di Batistuta non mi piaceva negli atteggiamenti che teneva fuori dal campo, ma non ho mai smesso di esaltare in radiocronaca le sue incredibili qualità calcistiche. Quando nel maggio del 2000 seimila tifosi invasero il Palazzetto dello Sport per dire no alla sua cessione, un ragazzo fece il mio nome al microfono come simbolo dei nemici di Bati. Ero in studio a condurre la diretta e sentii una fischiata generale nei miei confronti che mi gelò il sangue. Ma avevano ragione loro, perché anch’io, da tifoso, tra Batistuta e Guetta non avrei avuto dubbi su come schierarmi: uno era il campione più straordinario degli ultimi trent’anni e l’altro solo un cronista che raccontava da quasi quattro lustri le partite dei viola. In questi casi non conta chi ha ragione, ma chi ha regalato emozioni.
Prima o poi anche l’immenso Batistuta appenderà le scarpette al chiodo e quel giorno, se sarà possibile e se lo vorrà, mi piacerebbe passarci insieme un’altra ora, come quel viaggio fianco a fianco da Lecce a Firenze, solo che stavolta dovrà essere davvero il punto di partenza per un nuovo rapporto.

CONSIGLIERE INASCOLTATO
A fine settembre la Fiorentina venne sconfitta in casa dalla Roma e i Cecchi Gori decisero di averne abbastanza di Lazaroni. Cominciò così un rifrullo di telefonate fra Roma e Firenze per tastare il polso ai giornalisti che contavano di più. Per la prima volta inserirono anche me nell’illustre lista, un po’ perché Mario continuava a seguire le mie radiocronache e un po’ perché il plenipotenziario del settore cinema, Sergio Bartolelli, aveva il figlio che giocava nella Primavera viola e voleva avere buoni rapporti con tutti quelli che conosceva. E fu proprio Bartolelli a chiamarmi il pomeriggio dell’esonero del tecnico brasiliano. «Siamo incerti tra Radice ed Agroppi, lei Guetta cosa ci consiglia?».
Agroppi lo avevo “scopertoâ€? radiofonicamente nel 1988, e da quell’anno tutti i lunedì commentava per noi il campionato. Nonostante il crescente successo televisivo alla Rai, aveva continuato a titolo totalmente gratuito una collaborazione di cui andavamo fieri. Risposi senza esitazioni: «Agroppi è la scelta giusta, prendetelo e non ve ne pentirete. A Firenze lo ricordano tutti volentieri». Avrei voluto aggiungere «tutti meno Antognoni», ma lasciai perdere. Ovviamente scelsero Radice, pare su consiglio del giornalista Lino Cascioli, ma appena quindici mesi dopo Agroppi arrivò lo stesso.

UE UE UE
Era l’intercalare di Maurizio Casasco, il nuovo direttore sportivo viola. Paracadutato nel dorato mondo calcistico dall’ex ministro Prandini, Casasco era l’uomo che (a parole) aveva una soluzione per tutto. Con i giornalisti applicava una regola vecchia come il cucco, dando ad ognuno di noi la sensazione di essere il depositario dei segreti viola. Certo non si può dire che fosse proprio un portafortuna per le squadre a cui dispensava i suoi illuminanti consigli: quattro squadre negli anni novanta e quattro retrocessioni, tra cui purtroppo quella della Fiorentina. Era comunque un tipo coraggioso. In quella stagione i viola incapparono in una serie di tre sconfitte consecutive, l’ultima delle quali davvero pesante, per quattro a zero a Cagliari. Il martedì dopo ai campini c’era aria di contestazione e così il prode Casasco immolò faccia e camicia alla causa viola. Incurante degli inviti alla prudenza, marciò con passo sicuro verso i tifosi, quando fu centrato in pieno da due uova marce provenienti dagli spalti. Un po’ schifato, si ripulì gli occhiali e tornò grondante di tuorlo negli spogliatoi: «ue, ue, ue – disse sconsolato – con certa gente non si può proprio parlare».

Era questa la squadra che ha perso col Torino?
Sì, va bene, un Montolivo, un Frey e un Gamberini in più, ma non basta a spiegare la metamorfosi totale di una formazione che a Genova è stata davvero grandissima.
Sono d’accordo con Prandelli: questa chicca la mettiamo dopo Eindhoven e ci serve a chiudere un anno importante e di grandi soddisfazioni.
Impressionanti Melo e Montolivo, bravissimo Santana, nessuno sotto il 6 e una vittoria più che meritata, al di là dei discorso di Mazzarri, che ha visto una Samp “a cui è mancata solo la fortuna di metterla dentro”.
Adesso stacchiamo calcisticamente la spina con la consapevolezza che la storia molto bella degli ultimi tre anni non so è ancora conclusa.
Ah, dimenticavo: e quelli delle verità assolute, quelli che “tanto Corvino e Prandelli divorzieranno a fine stagione”, quelli che “Mutu era meglio venderlo e Prandelli li mette tutti fuori ruolo”, quelli che si sono inventati il mestiere di sputasentenze e che oggi dicono il contrario di quello che hanno detto ieri, domani che diranno?

Questa l’ho saputa da fonte autorevole in settimana ed è folle e divertente allo stesso tempo: Moratti ha a libro paga 18 (diciotto) fisioterapisti!
Per dare un senso delle proporzioni, il Milan ne ha nove e la Fiorentina tre.
Mi immagino le scene alla Pinetina, dove qualcuno di questi diciotto luminari non conosce neanche tutti gli altri diciassette e ipotizzo che il costo complessivo dell’esercito superi l’ingaggio di Mutu.
Pare che davvero ci siano i turni per seguire la squadra, ma qualcuno dei giocatori non si fida di nessuno dei diciotto e preferisce la cura del proprio fisioterapista, che magari pensa di diventare il diciannovesimo (però così dovrebbe stare in tribuma, anche con la panchina lunga).
Non licenzia mai nessuno Moratti e se per caso lo fa, vedi alla voce Mancini, poi continua a pagare regolarmente lo stipendio.
Ma dove pensiamo di andare in un calcio del genere?

Oggi è il classico giorno in cui sono sempre più convinto di essere nel giusto quando limito al massimo l’intervento degli ascoltatori nel Pentasport.
A parte il fatto che così è troppo facile riempire lo spazio e fare le trasmissioni, se avessi aperto le linee o dato la parola a presunti opinionisti onnipresenti, che ormai occupano militarmente l’etere, avrei ascoltato le seguenti idiozie:
Pazzini e Osvaldo hanno volontariamente dato forfait, il perché non si sa , ma qualcuno è certo che sia nadata così;
Prandelli è un incapace, che non capisce il reale valore di Da Costa, uno per cui Mourinho avrebbe fatto follie, mette tutti i giocatori fuori ruolo e per colpa sua non vinceremo mai niente;
Prandelli non lancia mai i giovani e fa giocare sempre gli stessi, per questo i grandi campioni come Pazienza e Blasi se ne vanno da Firenze;
Prandelli e Corvino si odiano e a causa del loro pessimo rapporto abbiamo avuto tutte queste stagioni fallimentari;
Corvino non ne azzecca una in campagna acquisti, altrimenti non avrebbe compratto tutti questi giocatori che non vanno neanche a spingerli e in più ha venduto Maggio e Toni: molto meglio Baldini.
Può bastare o devo andare avanti?
Eh sì, il mondo è bello perché…avariato.

E scusate per le mancate risposte, ma organizzare il Pentasport, le pillole e trovare le risorse per alimentarlo economicamente mi permettono solo quella mezz’ora di tempo quotidiana per leggere e approvare, oltre che per proporre nuovi argomenti.

Sconfitta ed eliminazione ingiusticabile.
No, così davvero no, non esiste spiegazione palusibile.
Da Costa e Almiron dovrebbero aver chiuso la loro impalpabile esperienza in viola e forse ha ragione Prandelli a dire che siamo un po’ troppo fissati con Jovetic, che per inciso ancora non ha fatto un gol.
E se non segnano quei due, sono dolori.
Salverei solo Kuzmanovic e Storari, per la parata su Ventola improvvidamente lanciato da Pasqual.
Per il resto un pianto, con una particolare menzione rivolta ai già citati Da Costa e Almiron, oltre a Santana e Felipe Melo, che ha rischiato pure di essere cacciato.
Cerchiamo di riprenderci presto perché un’altra botta del genere risulterebbe assolutamente insopportabile.

P.S. Ottimo Leo in radiocronaca, ma lo sapevo già…

La solita Coppa Italia, con il sottoscritto, Paloscia e pochi altri a darle importanza, salvo poi rammaricarsi tutti in caso di mancato raggiungimento della finale.
Ci pensavo lunedì mattina: questo gruppo sta ottenendo risultati straordinari, soprattutto s rapportati alla storia della Fiorentina, e sto parlando di continuità, ma non ha ancora vinto niente.
Voglio dire che la Fiorentina di Ranieri, via via che passa il tempo, ci rimane nella memoria per quella Coppa Italia e quella Supercoppa, e ancora io mi ricordo del succeso del 1975, ottenuto all’Olimpico contro il Milan partendo sfavoriti.
Per questo sarebbe ora di alzare qualcosa, per questo non mi iscriverò mai al partito che vorrebbe uscire dall’Uefa per raggiungere il quarto posto in campionato.
Perché alla fine restano solo quelli, i trofei conquistati (o gli scudetti vinti, ma in questo caso sto sognando…).

GIORNALISTA MAI
La prima volta che ho pensato di voler diventare giornalista è stato a dieci anni e non ho mai capito bene il perché. Non c’è mai stato nessuno in famiglia che lo sia stato, a casa il giornale lo portava mio nonno la sera ed insomma non c’era tutta questa grande passione per la carta stampata. All’interno della comunità ebraica, che ho frequentato fino ai quattordici anni, per questa mia passione mi guardavano come se fossi un alieno, permettendomi comunque di fare e disfare tre giornalini di cui ero sempre il direttore: quando si dice la modestia… Finita la terza media riuscii a incontrare un paio di giornalisti de La Nazione per chiedere consigli, con la (mia) segreta speranza che mi avrebbero fatto scrivere qualcosa. La risposta fu identica e sconfortante: «te lo sconsiglio, è un mestiere in decadenza, vedrai che nel futuro non ci sarà più bisogno di giornalisti. Bisogna sacrificarsi molto ed avere delle conoscenze». Grazie dell’aiuto, grazie davvero. Era il 1974 e le stesse cose me le sono sentite ripetere per almeno vent’anni, fino a quando non è toccato a me dare consigli a chi voleva cominciare. E siccome mi ricordavo della fitta al cuore provocata da quelle parole, ho sempre cercato di spiegare a modo mio in cosa consistesse questo mestiere un po’ da puttane, invitando chi avevo davanti a proseguire se davvero ne aveva voglia.
La verità è che io giornalista nel senso pieno del termine non lo sono mai diventato. Nessuno mi ha mai assunto e così mi sono inventato imprenditore di me stesso, vendendo pubblicità, sempre con un senso di provvisorietà che mi angoscia da una vita, ma che forse è anche la mia vera forza. Non ho mai dato nulla per scontato e so che ogni anno bisogna ripartire da zero, in tutti i sensi. Però ho avuto anch’io la grande occasione e per almeno un paio di anni ho creduto che sarei diventato un giornalista “come tutti gli altriâ€?. Nel 1987 la Federazione Italiana Editori Giornali e l’Associazione Nazionale della Stampa avevano indetto una borsa di studio per permettere “l’accesso alla professioneâ€? a 35 giovani particolarmente meritevoli. L’assunzione al termine dell’anno di prova era quasi certa, visto che erano gli editori stessi a promuovere l’iniziativa. Mandai il curriculum e non seppi nulla fino al settembre del 1990, quando mi comunicarono che ero entrato fra i tremila idonei a sostenere le prove. Mi presentai a Roma e mi andò bene perché arrivai trentaquattresimo. Quando nel marzo del 1991 mi dissero che ero dentro la lista magica, provai un senso di indicibile euforia e vidi dischiudersi tutte le porte del Paradiso. Per cominciare la borsa di studio ci volle ancora un anno e così, ormai quasi trentaduenne, iniziai entusiasta l’avventura. Lavorai a La Nazione, all’Ansa e a Panorama, mi presi grandi soddisfazioni, vivendo per dodici mesi quella professione che era sempre stata il mio sogno. Alla fine però non arrivò niente, se non vaghe promesse di contratti a termine lontano da Firenze ed è stato a quel punto che ho finalmente smesso di pensare di voler fare il giornalista da grande. In compenso, a causa di quelle frequentazioni nelle redazioni, ho vissuto un doloroso divorzio e cominciato un’altra vita: qualcosa effettivamente è cambiato…

PRONTO MARIO
Ora che aveva comprato la Fiorentina, Mario Cecchi Gori poteva “finalmenteâ€? ascoltare le mie radiocronache dalla sua casa di Roma. La prima volta fu a Bergamo, quando perdemmo nel finale e lui fu comunque disponibile a commentare la partita. Gli piaceva il mio modo di trasmettere ed io trovavo incredibile che allo 06/3232… rispondesse immediatamente lui, senza il filtro di almeno una mezza dozzina di segretari particolari. E se non era Mario, toccava alla signora Valeria fissare le modalità di collegamento per quelle partite in trasferta che loro non potevano seguire. Una volta a Genova contro la Sampdoria raccontai ai cerberi che mi davano la caccia in tribuna stampa che stavo trasmettendo solo ad uso e consumo di Mario Cecchi Gori e siccome non erano affatto convinti glielo passai tramite radio. Il presidente si arrabbiò di brutto perché gli scagnozzi di Mantovani gli stavano facendo perdere parte della cronaca, il tutto in rigorosa diretta, e potei continuare a trasmettere. Col passare del tempo mi passò il timore reverenziale delle prime partite, anche se il passaggio decisivo avvenne solo un anno più tardi, a causa di un imbarazzante scambio di persone. Quando ero borsista a La Nazione, Angelo Giorgetti mi prendeva spesso in giro con questa storia delle telefonate di Cecchi Gori e così mi chiamava spesso facendomi degli scherzi. Un sabato sera suonò il cellulare: «David, sono Mario Cecchi Gori, domani non vengo a Firenze a vedere la partita, mi puoi far chiamare dalla radio?»
«Sì, va bene Agio, ma il sabato sera non potresti pensare a trom… invece che venire a rompere i cog… a me?»
«Ma veramente…»
«Dai, lo so che sei te, figurati se ci casco. Ti immagini se Mario Cecchi Gori, con tutte le cose che ha da fare il sabato sera e le attrici che si ripassa, chiama me»
«David, ma sono io, te lo assicuro, sono il presidente»
Era davvero Mario Cecchi Gori e precipitai velocemente in un turbinio di scuse e di “io credevo che fosse un mio amico giornalistaâ€?, “sa, scherzano sempre su questa cosa…â€?.

SCOOP CON BAGGIO
Ero riuscito ad avere il numero di telefono torinese di Baggio, che stava passando un periodo difficile, e due settimane prima del suo ritorno a Firenze da avversario provai a chiamarlo per registrare un’intervista. Erano le dieci di sera e lo trovai voglioso di parlare. Venne fuori ciò che i tifosi viola già immaginavano: quella maglia della Juve che Baggio aveva lanciato ai suoi nuovi tifosi dopo una gara di Coppe era un gesto chiesto ed imposto dalla società e non certo un moto dell’anima. Baggio, insomma, non si sentiva affatto juventino e raccontava con parole accorate della sua nostalgia per Firenze. Capii di avere in mano del materiale scottante ed il giorno dopo chiamai un paio di redazioni per sapere se volevano avere uno stralcio della chiacchierata. Ricevetti risposte evasive ed un po’ supponenti fino a quando non fui “intercettatoâ€? da Benedetto Ferrara di Repubblica, che mi convinse a dargli l’esclusiva dell’anticipazione, in cambio della citazione del mio nome nel pezzo, che sarebbe andato nell’edizione nazionale del giornale, e di Radio Blu, che sarebbe apparsa sotto il titolo.
Il giorno dopo scoppiò il finimondo. Venni cercato da tutti i giornalisti fiorentini per avere tutta l’intervista, gli unici che non chiamarono furono quelli che avevano sottovalutato la mia proposta e che adesso erano arrabbiati con me, non ho mai capito bene il perché. Da Torino Tuttosport e La Stampa scrissero addirittura che l’intervista era stata inventata e alla radio arrivò la telefonata di Caliendo, il procuratore di Baggio: un dialogo illuminante che venne opportunamente registrato da Rinaldo.
«Lei è il signor Rinaldo Pieroni, proprietario della radio?»
«Sì, signor Caliendo, mi dica»
«Sa, c’è questa storia dell’intervista di Baggio che sta provocando dei problemi a Roberto. Le consiglierei vivamente di non mandarla in onda»
«Mi pare che Baggio sapesse benissimo di parlare con Guetta in un’intervista che sarebbe stata registrata. Non vedo dove sia il problema»
«Il problema è che se voi mandate quell’intervista, io vi faccio chiudere la radio»
«Benissimo, signor Caliendo, grazie della telefonata».
L’intervista andò in onda nell’intervallo della radiocronaca di Lecce-Fiorentina, la settimana prima della gara con la Juve, nel momento di massimo ascolto e Radio Blu per fortuna non venne chiusa. E Robertino? Il più grande di tutti. Quando lo rividi a Torino nel settembre successivo ero un po’ imbarazzato perché sapevo bene quante rotture di scatole aveva avuto dalla Juve per “colpaâ€? del mio scoop.
«Sei arrabbiato?», gli chiesi
«Ma vaia, bischero, vieni qua», e ci abbracciammo.

6 APRILE 1991
Che giornata! Fu in quel pomeriggio che la curva Fiesole disegnò la più bella coreografia mai vista in uno stadio di calcio, con Firenze stilizzata in viola sul fondo bianco. Arrivava la Juve e per la prima volta c’era Baggio da avversario. La storia la sanno tutti: il gol di Fuser, il rifiuto di tirare il rigore, la parata di Mareggini, la vittoria finale. Quel sabato dimenticammo tutte le miserie di una stagione davvero avara di soddisfazioni e conquistammo qualcosa che andava al di là dei due punti. Uscendo dal campo prima del tempo per una sostituzione, Robertino raccolse una sciarpa viola e se la mise al collo: la Juve si era comprata il campione, ma l’anima era rimasta qui.

L’AFFARE ROGGI
Per un po’ nella nuova Fiorentina regnò il caos più completo. Talune scelte vennero fatte seguendo consigli di amici e di amici degli amici. Basta pensare a chi venne affidato l’ufficio stampa… Ad un certo punto, finalmente, sembrò chiaro che ci volesse uno dentro il mondo del calcio e così fu scelto Moreno Roggi. Aveva un ottimo passato da calciatore, troppo breve per colpa di una distorsione al ginocchio mal curata che lo costrinse ad interrompere l’attività quando già era in Nazionale. Innamorato da sempre della Fiorentina, Roggi aveva dimostrato di possedere un’intelligenza al di sopra della media e rimboccatosi le maniche svolgeva da anni con successo il lavoro di procuratore. Guadagnava più di quanto avrebbe preso in viola, ma accettò entusiasta il nuovo incarico. L’inizio non fu però dei migliori. Lasciò che Di Chiara si svincolasse a costo zero e passasse al Parma, mentre a Firenze tornava Carobbi, suo ex assistito; scambiò Buso con Branca della Sampdoria, acquistò Maiellaro dal Bari, pagandolo un po’ troppo. Si diceva che da Los Angeles Vittorio Cecchi Gori, l’unico figlio (per fortuna!) di Mario e Valeria, non fosse affatto contento dell’operato del direttore sportivo e soffiasse sul fuoco. Il punto di non ritorno fu l’acquisto dal Napoli di Marco Baroni. All’ex difensore delle giovanili viola era stato dato un valore in verità eccessivo: dieci miliardi di lire, tutte in contanti. A quel punto Mario Cecchi Gori sbottò e in un’intervista a Radio Blu parlò apertamente di imbroglio, accusando neanche troppo velatamente Roggi di disonestà. Antognoni, dirigente della Fiorentina e amico da sempre di Moreno, non sapeva più che pesci prendere, l’ambiente viola, era tanto per cambiare spaccato in due fazioni. Roggi si dimise, entrò in una fase di depressione ed un paio di mesi più tardi, con un gesto di gran classe invitò alcuni giornalisti nella sua casa all’Ugolino, anche quelli che si erano schierati contro di lui. Come ringraziamento del lavoro svolto in quei mesi insieme, regalò a tutti i presenti un orologio Swatch, che nessuno rifiutò. Personalmente non ho mai pensato che Roggi avesse voluto fare la “crestaâ€? su Baroni perché se voleva rubare ci sarebbero stati tanti modi meno appariscenti per spillare quattrini a Cecchi Gori. Ero semmai perplesso per le operazioni di mercato da lui condotte e ancora oggi, quando capita di parlarne insieme, non riesce a convincermi che fosse davvero meglio dare via Di Chiara per riprendere Carobbi.

PRIGIONIERI DI DUNGA
La Fiorentina finì il campionato al dodicesimo posto, con l’unico acuto della vittoria casalinga contro la Juve. Il giovane Malusci, esploso nell’ultima fase della precedente stagione, stava pagando un’inevitabile crisi di crescita ed il bilancio di Lazaroni era desolante. Al suo attivo poteva vantare solo l’invenzione tattica di Di Chiara terzino e la completa fiducia concessa al diciannovenne Massimo Orlando, ma il resto era da dimenticare. Mario Cecchi Gori avrebbe voluto mandare via Lazaroni subito, a fine campionato, ma c’era, insormontabile, il problema Dunga. Il capitano, ancora una volta tra i migliori, aveva detto più volte che Lazaroni doveva rimanere. E così fu, fra il malumore generale. Si tentò invano di trattenere Fuser, arrivato in prestito dal Milan, e per sostituirlo arrivò da Lecce per una cifra davvero ingiustificata il timido Mazinho, che fece un grande pre-campionato, per poi sparire nell’anonimato. Intanto si aspettava dall’Argentina il fantasista Diego La Torre, che era già stato acquistato e di cui si parlava un gran bene. Il rampollo di casa Cecchi Gori aveva nel frattempo deciso di occuparsi sempre più da vicino delle vicende viola e fu per questo che si mise a guardare le cassette della Coppa America, dove La Torre era impegnato. All’improvviso Vittorio scoprì un ragazzone di ventidue anni nativo di Reconquista, un centravanti po’ grezzo tecnicamente, che però la metteva dentro quasi sempre. Il suo nome era Gabriel Omar Batistuta.

Per il quarto anno continuiamo le partite facili, cioè quelle in cui siamo tecnicamente superiori agli avversari.
Io trovo questa continuità eccezionale nel lungo periodo e anche il segno di una personalità assoluta che mai la Fiorentina aveva avuto per un periodo così duraturo.
E quella contro il Catania era la più difficile tra le cosiddette partite facili, perché Zenga è un ottimo allenatore e ha cercato con un certo successo di incartare la gara a centrocampo.
Poi ci sono quei due lì davanti e su questo punto il dibattito è aperto: sono meglio di Batistuta-Baiano, Batistuta-Chiesa, Toni-Mutu, Baggio-Borgonovo, Graziani-Bertoni, Maraschi-Chiarugi?
Mi fermo a queste coppie, perché le ho viste tutte dal vivo e sinceramente non saprei scegliere, ma intanto godiamoceli davvero, perché oggi forse solo Trezeguet-Amauri (o Del Piero-Amauri) possono giocarsela con loro.

Scusate ragazzi, vedo che ho una percentuale degna al massimo dell’UDC sulla mia idea che uno dei tre esterni sinistri debba essere ceduto ed io capisco che da tifosi uno comprerebbe Maicon a destra e Grosso a sinistra, magari per tenrli in panchina, ma qui occorre un ragionamento un po’ più ampio.
Fallita la qualificazione Champions, credo che sarebbe opportuno rientrare di qualche milione di euro, soldi che dovrebbero arrivare attraverso la cessione di giocatori impiegati nei ruoli in cui siamo più coperti.
Quanto volete che possa valere Papa Waigo sul mercato? Forse 2 milioni, sempre che Corvino riesca a superarsi.
I soldi veri si fanno con Pazzini (e mi spiace, ma non vedo altre soluzioni) e forse con Pasqual (idem): una quindicina di milioni che possono venire buoni questa estate, quando i Della Valle, con ancora la Cittadella Viola nel libro dei sogni, investiranno quasi zero nella campagna acquisti.
E comunque voglio vedere cosa succederà alla quinta giornata consecutiva in cui uno tra Gobbi o Pasqual non mette piede in campo.
Non parlo dei giocatori, ma dei tifosi, che rumoreggeranno per una partita così e così di Vargas…

« Pagina precedentePagina successiva »