Febbraio 2019


Qualcuno di voi lo ha davvero capito?

Si accettano spiegazioni di ogni tipo, a volte pare di vivere in una realtà parallela e invece siamo (per fortuna) in Italia, nel mondo occidentale  con i suoi cardini fondamentali: il libero pensiero e il libero arbitrio.

E comunque, per quanto mi sforzi e per quanto i francesi, salvo alcune eccezioni che cominciano da Frey, non mi rimangano particolarmente simpatici, non trovo motivazioni valide per essere richiamato dall’esercito, indossare la mimetica e andare sul fronte.

Neanche ripensando al furto di Lione nel settembre del 2008, la sera in cui venne annunciata, pensa un po’, la conferenza per la presentazione del nuovo stadio.

 

Mi ha molto colpito il tweet di Mario Calabresi che a sorpresa viene rimosso dalla poltronissima di direttore di Repubblica e che con orgoglio rivendica la bontà del suo lavoro, precisando che il calo delle copie sotto la sua guida è passato dal 14 al 7%.

Cioè, se ho capito bene, Repubblica vende ogni anno il 7% in meno rispetto ai dodici mesi precedenti e il direttore è soddisfatto?

Il problema, però, non è di Calabresi, che forse non era lucidissimo nella sua esternazione, ma della mia adorata carta stampata, che sta andando verso un più o meno lento inesorabile declino.

Leggere i giornali vergati di inchiostro e non su un tablet è per me ancora fonte gioia e di ristoro mentale, ma temo di essere ormai in netta minoranza e sarà un bel problema per le ipertrofiche redazioni dei più importanti quotidiani italiani: non mi pare una bella notizia per nessuno.

Siamo tornati all’antico: avremmo meritato di vincere contro una squadra nettamente inferiore e siamo qui a rammaricarci per le occasioni perse.

Nel primo tempo abbiamo giocato con  una grande prevedibilità anche perché non potevamo puntare sul contropiede, con Chiesa raddoppiato e svolte triplicato.

Il gran gol di Edmilson ha evitato la beffa, poi per tre volte potevamo passare in vantaggio, ma nessuna occasione è stata limpidissima.

Simeone meglio di Muriel, ma sono dettagli.

Chiederei una raccolta di firme per non vedere mai più in campo Pjaca: raramente ho visto un giocatore più irritante di lui, sembra sempre tocchi agli altri, perde tutti i palloni, non sarà certamente così però sembra davvero non impegnarsi.

Domenica grigia, speravamo veramente di meglio.

Oggi è un giorno importante per chi ama la Fiorentina.

Tutti, o quasi tutti, sapete dei miei rapporti non proprio straordinari con Batistuta, soprattutto nei suoi ultimi tre anni a Firenze, ma come ho sempre detto tra me e lui io, da tifoso, avrei sempre scelto lui anche se non aveva ragione.

Perché Gabriel Omar Batistuta è stato uno dei tre più grandi degli ultimi 50 anni viola: lui le partite le faceva vincere, io al massimo le raccontavo (e le racconto) più o meno bene.

Comunque sia, oggi ho scritto di lui sul Corriere Fiorentino e quindi, per gentile concessione del giornale, vi ripropongo l’articolo.

La sua grande forza è stata voler diventare Batistuta, il più grande a Firenze insieme ad Antognoni e Baggio, ma qui si va sui gusti personali su cui per definizione non si discute Perché se fosse dipeso solo dalle doti tecniche  che madre natura gli aveva regalato, sarebbe rimasto solo un buon centravanti e nulla più. E invece Gabriel Omar, che oggi compie 50 anni, e a cui vanno gli auguri di tutto il popolo viola, ha deciso nella sua testa di essere il più forte di tutti. Si è immolato alla causa con il corpo, e questo lo sanno tutti, come testimoniano le sue caviglie martoriate da cento, mille colpi, che a un certo punto hanno anche fatto pensare che non potesse più camminare. Non si è mai risparmiato, un’iniezione di antidolorifico e via:  in quanti ieri e soprattutto oggi seguirebbero il suo esempio? Molto più segreto è invece il suo carattere, probabilmente modificato in corsa una volta arrivato a Firenze a poco più di vent’anni. Etichettato come un bidone all’inizio (il paragone con Dertycia da queste parti non lo dimentica nessuno), quando ha cominciato a segnare ha capito con grande intelligenza che non doveva fermarsi, ma lavorare come e più di prima su se stesso, senza cedere ad alcuna lusinga. Eccolo quindi diventare sempre meno ragazzo e sempre più uomo e leader, complice anche la quaterna di figli maschi che Irina gli ha regalato. Un leader urticante all’esterno, che non faceva sconti e che proprio per questo era molto seguito nello spogliatoio. La sua maggiore difficoltà è stata nascondere le emozioni, essere freddo dopo i trionfi, pensare sempre a chi era e al ruolo che aveva. Venne smascherato in una sera dell’ottobre 2014, quando venne consacrato nella Hall of Fame viola. C’era il figlio più grande in platea e Gabriel si commosse parlando dell’amore che aveva ricevuto da Firenze e che sperava di avere in parte restituito, pur aprendosi pochissimo al mondo esterno, al contrario per esempio del suo grande amico Rui Costa.  Si è compresa in quel momento la grande fatica di essere e rimanere sempre Batistuta. Un gigante del pallone che ha dato veramente tutto, uscendo sfinito dalle battaglie in campo e fuori. Ci sono voluti anni perché ricominciasse ad interessarsi davvero al calcio, ma anche quando giocava non è che fosse così innamorato del pallone. Guardava pochissimo le partite in televisione, non gli piaceva parlarne e nella sua testa ha sempre pensato di svolgere un lavoro più che assecondare una passione. E siccome uno dei suoi concetti guida è sempre stato quello secondo cui il dovere veniva prima del piacere era normale l’impegno massimo tutti i giorni e ad ogni allenamento. Chi lo marcava nella partitella del giovedì diventava per lui uguale a Nesta, Baresi o Ferrara. Fuori dal campo ha avuto pochi amici, sempre gli stessi dal 1991, quelli che va puntualmente a trovare ogni volta che arriva a Firenze. Non si è mai capito fino in fondo quale fosse il vero sentimento che lo legava a Vittorio Cecchi Gori, il suo scopritore calcistico. Vittorione se ne innamorò osservando su videocassetta La Torre, che era già stato acquistato, e ordinò ai suoi dirigenti di prenderlo ad ogni costo. Dopo i primi anni di armonia assoluta cominciarono le prime crepe, ma anche se ci sono stati momenti difficili, come nell’estate del 1997 con Batistuta blindato in albergo a Roma, è facile immaginare che la riconoscenza verso il “suo” presidente non sia mai venuta meno. Con gli allenatori ha sempre avuto un  ottimo rapporto, con la sola eccezione di Lazaroni, che lo considerava una riserva. Ne ha collezionati sette in nove stagioni e nella sua classifica Ranieri, l’unico che lo cambiò per scelta tecnica in serie B, viene al primo posto. Insieme condividono la stessa riservatezza nella vita privata e un certo modo di intendere il calcio. In campo Batistuta è stato semplicemente straordinario e a 19 anni dal suo dolorosissimo addio bastano le cifre per raccontarlo ai più giovani: 207 gol in 332 partite, una media mostruosa, miglior realizzatore viola di sempre in serie A. Ha segnato reti memorabili a Wembley e al Camp Nou, quando il dito sul naso aveva un altro significato, ma anche all’Old Trafford, portando la Fiorentina in vantaggio contro il Manchester United. Ha cominciato a metterla dentro per la causa viola il 3 settembre 1991 a Cesena e ha smesso il 14 maggio 2000, con la tripletta al Venezia, quando già sapeva che sarebbe finita lì. In nove anni ha visto di tutto: fotogrammi di grandezza con la Coppa Italia del 1996 e la Supercoppa di Irina te amo e tristezze infinite come la retrocessione, ma almeno si è risparmiato il fallimento, che con lui in squadra non ci sarebbe stato. La prima volta da avversario ha pianto dopo aver segnato a Toldo, la seconda a Firenze non ha letteralmente toccato palla, sopraffatto dall’emozione di dover affrontare una parte di se stesso. E’ stato per almeno un paio di stagioni il miglior centravanti del mondo, solo che giocava nella squadra sbagliata per poter puntare al Pallone d’oro. Alla fine però quella è stata certamente la squadra giusta per il suo mondo.

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