E’ ufficiale: giochiamo il miglior calcio del campionato.
Siamo ingenui, sprechiamo l’inverosimile, ma questa col Bologna era la cartina tornasole per capire chi eravamo.
Temevo infatti che tutto quel possesso palla fosse un po’ una concessione degli avversari, che insomma ci facessero arrivare fino ad un certo punto perché tanto sapevano che non saremmo stati pericolosi, che non tiravamo mai.
Oggi invece ci abbiamo provato (male) molte volte e avremmo dovuto vincere con almeno due gol di scarto.
Borja Valero, strepitoso, ma vorrei spendere due parole per Olivera, da me spesso criticato.
Anzi, criticato prima ancora che arrivasse, perché non mi è mai piaciuto e i primi nove mesi a Firenze mi hanno purtroppo dato ragione, ma con Montella le cose si vede prendono tutto un altro verso.
E così, invece del solito centrocampista casinista e falloso, ci siamo ritrovati un vice Pizarro che ha giocato una gara con i controfiocchi.
Il finale è velenoso e riguarda Natali non espulso: dopo Samuel per la seconda volta non ci danno quello che è nostro e non ne parlerà nessuno quando invece bisogna sottolineare, far vedere, ricordare, perché è anche su questi particolari che si decidono le partite.
Oggi c’è andata bene, ma a Milano no e comunque sono già due torti in fila che fanno riflettere.
Ottobre 2012
Una goduria, ma sono arrabbiato
Hai visto Stevan?
Mattinata da urlo con la Hall of Fame.
Un privilegio esserci, anche se molto impegnativo, perché sai che alla fine il lavoro di decine di persone finisce nel modo in cui tu e un’altra persona riuscirete a chiudere il cerchio.
Se sbagli, se ti dimentichi qualcosa, se vai troppo lungo, non c’è rimedio.
Mi fanno sorridere quelli che dicono: “ma cosa vuoi che sia, l’hai fatto talmente tante volte…”.
Sì, peccato che ogni volta sia diversa e deve esserlo, altrimenti metti il pilota automatico e non ti emozioni più.
Tutto diventa routine e chi ascolta o guarda se ne accorge dopo trenta secondi.
Devo dire che lavorare con Mario Tenerani è davvero un piacere, abbiamo molte più affinità di quello che si può vedere da fuori e ormai siamo al terzo giro insieme: visto che non mi è mai riuscito portarlo a Radio Blu e/o a Radio Sportiva, mi rifaccio con questi eventi emotivamente coinvolgenti.
Hanno dato tutto i ragazzi (sì, anche i cinquantenni sono ragazzi dentro…) del Museo, Andrea Claudio Galluzzo avrà spedito non meno di una decina di copioni in tre giorni, ogni volta limava, correggeva, migliorava.
E i risultati si sono visti per chi era lì, e sentiti per chi ascoltava su Radio Blu, compresa la sorpresa finale per l’immenso Raffaele Righetti, con cui festeggio in questa stagione i 35 anni insieme, perché era il 1977 quando facevo delle anticamere di ore nella sede viola di viale dei Mille pur di avere il pass per andare a fare le interviste negli spogliatoi dopo aver visto la partita in ferrovia.
Dal palco sbirciavo Jovetic: mi sembrava sorpreso dall’amore che a distanza di anni una platea può riservare a chi ha vestito la maglia viola, onorandola sempre: da Brizi a Pandolfini, da Riganò a Chiappella, da Bernardini ad Hamrin e via a seguire.
E si era perso un momento assolutamente irripetibile, la standing ovation spontanea durata più di un minuto (che vi assicuro è lunghissimo in un teatro) per Giancarlo Antognoni.
Anche il capitano era sorpreso, incredibile come non abbia ancora realizzato a 40 anni di distanza dal suo primo impatto con Firenze quanto la città lo ami sempre e ancora, al di là dei ruoli o delle cariche.
Questa è Firenze e questa è la Fiorentina abbiamo detto io e Mario a Stevan, un discorso che voleva sottintendere: ma ti rendi conto di quello che perdi se te ne vai?
Ora sono stanchissimo ma calcisticamente felice, più di così non era possibile chiedere a questo sabato.
Domani si gioca, ma questa è attualità, la storia ha tutto un altro fascino.
Nostalgia europea
Notalgia canaglia ieri sera con il Napoli (che scoppola!) ad Eindhoven e l’Udinese (che brava!) a Liverpool.
Frammenti della memoria di due vittorie indimenticabili, anche se in Inghilterra era come se non ci fossi perché era appena morto Alberto, e meno male che avevo con me Valentina che non si è mai resa conto abbastanza di aver vissuto in diretta un momento storico della Fiorentina.
Quella in Olanda è stata certamente meno prestigiosa, ma più bella in tutti i sensi: perché era decisiva e perché abbiamo dato un’autentica lezione di calcio, applauditi da tutti e con un Mutu stratosferico.
Ora l’Europa la vediamo in televisione e forse apprezziamo di più certe dolcezze del passato: io ci voglio tornare, il prima possibile.
Due mesi, dieci minuti
Siamo pure stati sfortunati, perché le medie negli ultimi due anni erano state da giocatore normale che ogni tanto si ferma per qualche acciacco.
Non Xavier Zanetti (un mostro di continuità), insomma, ma neanche il povero Kroldrup della passata stagione, di cui ad un certo punto si erano perse le tracce.
Le cifre sono sconfortanti: quando il campionato riprenderà dopo la sosta, e sarà il 21 ottobre, in due mesi di torneo Alberto Aquilani avrà giocato appena dieci minuti.
Ottimi, per carità, con tanto di lancio “sbilenco” per Jovetic, ma un po’ poco per aiutare la Fiorentina che avrebbe invece un gran bisogno del suo migliore centrocampista per insierimento e tiro.
Si naviga a vista, e non può essere altrimenti perché con la salute non si scherza, però speriamo di avere già dato e di ritrovarcelo a disposizione per almeno tre quarti della parte restante della stagione.
Io mi vergogno, e voi?
Il mausoleo costruito per Rodolfo Graziani ad Affile, in provincia di Roma, sul quale dominano le scritte ‘Patria’ e ‘Onore’, capisaldi del fascismo. «Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.
È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò…) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».
«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica ».
Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente ». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».
C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.
Gian Antonio Stella (Corriere.it)
Passaggio importante
Eh sì, passaggio importante avrebbe detto come spesso gli succedeva il mio vecchio amico Roberto Barry (uno dei pionieri della radiofonia fiorentina) e con ragione.
Se perdiamo lucidità e unità adesso, rischiamo di farci male, anche se la vocazione degli attuali dirigenti viola mi pare molto meno narcisista della precedente, molto più preoccupata del proprio orticello personale invece che del bene comune.
E’ chiaro che contro il Bologna bisogna vincere, ma senza passi indietro sul piano della mentalità: dobbiamo cioè giocare come abbiamo sempre fatto, dal Novara in Coppa Italia e fino a Milano.
Poi ci fermeremo per rifiatare e sarà quello il momento di tirare qualche conclusione e fare analisi più approfondite.
Bisogna reggere sul piano della fiducia, cercare di andare allo stadio come contro il Catania (era bello vedere il popolo dal campo), far sentire che siamo tutti dalla stessa parte.
Impresa non facile a Firenze, dove nel calcio come per ogni altra cosa per ogni idea che viene fuori ci sono almeno tre partiti diversi.
Se non tiriamo mai…
…come facciamo a segnare?
Abbiamo giocato di più dell’Inter, ma loro hanno avuto più occasioni e se Viviano è stato il migliore della Fiorentina forse la vittoria l’hanno pure meritata.
Restano due dubbi: Samuel poteva e doveva essere buttato fuori dopo il fallo su Fernandez per doppia ammonizione e Montella ha insistito troppo su Ljajic, che non ha neanche giocato male (meglio di Jovetic, tanto per capirsi), ma uno che sta davanti la deve buttare dentro.
Almeno una volta su due, soprattutto se ti capitano occasioni clamorose contro Juve e Inter.
Ed invece una volta non prende neanche la porta e nell’altra pensa di entrare dentro col pallone.
Le partite girano così: avremmo pareggiato in tre minuti ed avrebbero avuto paura.
L’Inter ha giocato da provinciale e noi da squadra che ha un più ampio respiro, ma in pratica senza Borja Valero e Jovetic, oltre a Rodriguez fuori giri (anche Roncaglia mi è piaciuto poco) e così è durissima, direi quasi impossibile.
Questo però è il momento di tenere duro, di non mollare e nonfarci del male da soli: la classifica è peggio di quello che noi siamo, però anche stavolta siamo usciti dal campo a testa alta.
A me non basta perché volevo dei punti, ma nella vita bisogna sapersi accontentare.