Dicembre 2008


SENZA INFAMIA E SENZA LODE
Gigi Radice non era più quello di diciotto anni prima, cioè l’uomo tutta energia capace di costruire una bellissima squadra nella stagione 1973/74. Non era però il solo ad essere cambiato dai tempi della sua prima esperienza fiorentina, basta pensare all’intero ambiente del calcio, sempre più preso d’assalto da radio e televisioni. E Radice, al contrario del suo amico Trapattoni, non si poteva certo definire un grande comunicatore. Appena seduto sulla panchina viola, il tecnico brianzolo fu abbastanza saggio da capire che non occorrevano rivoluzioni, ma solo maggiore disciplina dentro e fuori dal campo. Rifece in pratica la preparazione e mantenne la Fiorentina sempre qualche punto sopra la zona retrocessione. La difesa era appena passabile, con le amnesie di Malusci, la grinta di Faccenda ed il rendimento costante di Pioli. Carobbi non valeva l’ultimo Di Chiara, che nel frattempo aveva conquistato la Nazionale. A centrocampo Maiellaro deluse anche i suoi più accaniti estimatori e finì addirittura in panchina, mentre Orlando venne paragonato un po’ troppo presto a Baggio. Iachini e soprattutto Dunga rimanevano l’anima di una squadra che se non avesse trovato Batistuta avrebbe faticato non poco a salvarsi. In attacco Borgonovo era ormai solo la controfigura dell’ottimo attaccante che tre anni prima duettava con Baggio, e del Branca fiorentino si ricordano solo le approfondite letture de “Il Sole 24 oreâ€? e i consigli di borsa dispensati ai compagni. Le sue azioni migliori furono quelle comprate in Piazza Affari e così fu sbolognato in tutta fretta all’Udinese.

NASCE L’AMORE
Gigi Radice può comunque vantare un record destinato a durare per chissà quanto tempo: è l’unico allenatore viola che in tre partite a Firenze ha battuto per tre volte la Juventus e sempre per due a zero. Ed il successo del 26 gennaio 1992 coincise anche con il primo “congiungimentoâ€? quasi carnale tra Batistuta e la Fiesole. Al settimo del primo tempo, Bati si infilò alla grande su un cross senza troppe pretese di Carobbi e colpì di testa, lasciando di sasso Tacconi. Quello, credo, fu davvero l’inizio di tutto, perché una rete alla Juve non si dimentica mai, tanto che qualcuno si ricorda ancora oggi di un gol di Tendi ai bianconeri… Poi Gabriel segnò cinque reti nelle successive gare in trasferta e cominciò a volare sempre più in alto, senza fermarsi più.

BOMBER BARTOLELLI
Mario Bartolelli, ipotetico bomber della primavera viola, in fondo è servito a qualcosa. Tutti noi calciatori falliti nel vederlo in allenamento ed in partita abbiamo infatti pensato che se c’era lui nella Fiorentina, un giorno o l’altro sarebbe toccato pure a noi giocare in serie A. Certo una differenza sostanziale esisteva, perché noi, comuni mortali, un babbo potentissimo, dirigente del gruppo Cecchi Gori, non ce lo avevamo. In verità, non è che il povero Bartolelli abbia combinato chissà quali disastri, ma solo perché in prima squadra ha giocato per fortuna appena quattro minuti. In compenso, nella Primavera viola di Mimmo Caso, che nel febbraio 1992 vinse nonostante lui il torneo di Viareggio, Bartolelli era un titolare inamovibile. Quelli veri come Banchelli e Beltrammi si alternavano in panchina, salvo entrare quando la faccenda diventava imbarazzante. E nell’anno della retrocessione chi c’era nelle ultime partite come riserva di Batistuta e Baiano? Ma l’ormai sempre meno giovane Bartolelli, e chi altrimenti? Mentre Casasco bisbigliava ai cronisti che «quel ragazzo era utilizzato troppo poco. Ditelo e scrivetelo, perbacco». Ah, se gli avessimo dato più fiducia!

VITTORINO, VITTORINO
Avevo intanto cominciato a conoscere Vittorio Cecchi Gori. A quei tempi se lo filavano davvero in pochi perché il personaggio numero uno era Mario, carismatico e “fiorentinoâ€? nell’anima. Al secondo posto veniva la signora Valeria, e se proprio si voleva scendere di generazione, era meglio soffermarsi sulla signora Rita Rusic, bellissima. A Firenze mi ero inventato una postazione volante all’ingresso della tribuna d’onore, dove Vittorio arrivava ad un quarto d’ora dal fischio di inizio. Sentendolo parlare in romanesco, la prima volta che lo intervistai gli chiesi ingenuamente se «un giorno o l’altro la Fiorentina sarebbe diventata una passione, come lo è da cinquanta anni per i suoi genitori». Mi incenerì con lo sguardo e mi disse che lui era nato a Firenze, che stravedeva da sempre per i viola e poi tutte quelle cose che avrei sentito ripetere tristemente dieci anni più tardi. Essendo l’unico o quasi che lo avvicinava, cominciò con me ad alzare il tiro delle sue dichiarazioni. Un giorno dette quattro in pagella ai giornalisti di Repubblica, un altro se la prese con chi gli voleva portare via Orlando, che lui considerava come una specie di figlio putativo. Insomma, con Vittorio non ci si annoiava mai. Se mi avessero detto che ci avrebbe rovinato, non ci avrei creduto perché mi sembrava, quello sì, un po’ sopra le righe, ma assolutamente incapace di fare del male. Mi consolo pensando che tanti altri come me hanno sbagliato giudizio.

“Quando sarà che l’uomo potrà imparare, a vivere senza ammazzare e il vento si poserà…”.
Ogni volta che Guccini canta Auschwitz è sempre un brivido, specialmente per quelli come me cresciuti in un certo modo, con certe immagini, portandosi dentro fino ai quattordici/quindici anni verità assolute su Israele, verità che per altri bambini della comunità ebraica magari reggono ancora oggi, ma che nel mio caso si sono invece sgretolate negli anni delle superiori.
Perchè non esiste un torto e una ragione assoluta nella follia palestinese, in questo ammazzarsi da decenni senza che nessuno provi ad insegnare con convinzione una vera cultura della pace.
Io l’ho sempre fatta semplice: due Stati, la restituzione dei territori occupati, la fondamentale esigenza del riconoscimento dello Stato di Israele, ma purtroppo non è così facile.
Perché la cultura dell’odio sta contaminando una generazione dopo l’altra: atroce la rappresentazione del soldato di vent’anni catturato, senza parole i bombardamenti israeliani di ieri.
Qualcosa che, come sempre, mi fa sentire in colpa, come ebreo (non praticante, ma non importa).
Quando finirà?

Ho passato un Natale meraviglioso, stando a casa e non facendo assolutamente niente: stacco assoluto e, siccome mi piace quasi tutto del mio lavoro, a me bastano due giorni per ricaricare le pile.
Approfittando di una congiunzione astrale favorevole (nessuno dei figli malato, due giorni di ferie strappati in ufficio, sosta del campionato) avevo pensato che, visto anche il possibile e auspicabile lungo cammino Uefa della Fiorentina, sarei potuto andare a sciare dall’ultimo dell’anno alla Befana.
Niente: impossibile trovare le due doppie a qualsiasi livello di albergo nella nostra zona adorata, cioè la Val Badia.
Tutto occupato, non entra uno spillo.
Ora, partiamo dal presupposto che io rientri nel 15%, o forse sono anche meno, di persone fortunate che per ora non si accorgono della crisi e che Berlusconi sarebbe orgoglioso della famiglia Guetta per il livello quasi vergognoso di consumismo che abbiamo raggiunto (mi vengono i brividi se penso alla 850 dei vent’anni o alle tante vacanze in tenda a Torre del Lago…), però mi chiedo davvero quanto questa crisi sia un fatto psicologico e quanto invece una realtà.
Probabilmente si sta sempre più allargando la forbice tra chi sta bene e chi fatica ad arrivare alla terza/quarta settimana del mese, e quelli che se la passano più che decentemente non si fanno mancare niente.
Meno che mai durante le feste.

A volte penso a cosa rimanga delle tonnellate di parole che ogni anno facciamo uscire da quel mezzo meraviglioso che è la radio.
Per esempio, quando invito tutti a pensare almeno un minuto della giornata a chi sta peggio di noi (nel mio caso il 90% delle persone che conosco e per questo sono un uomo fortunato).
Mi chiedo se queste cose che dico non siano alla fine un po’ stucchevoli, se cioè chi le ascolta non le interpreti come un puro esercizio di retorica che non costa niente a chi lo mette in pratica.
Per me invece è naturale farlo, ma il discorso va esteso alla valanga di auguri che ci scambiamo in questi giorni.
Ho sempre un retropensiero che non mi abbandona: quanti di noi si sentono obbligati a farlo e si muovono seguono regole di convivenza più o meno civile?
E poi, perché essere buoni e disponibili per convenzione una sola settimana all’anno? E le altre 51?
Intanto continuo col solito meccanismo sugli sms: rispondo solo a quelli personalizzati e non ai seriali e apprezzo moltissimo le ditte che hanno rinunciato a mandarmi il pacco natalizio per devolvere tutto ai vari istituti e/o ospedali fiorentini e toscani.
Dove il Natale è certamente meno Natale che a casa nostra e vostra.
Auguri davvero sinceri a tutti i miei compagni di viaggio.

1991/92

Gabriel Batistuta venne presentato in una serata di agosto in modo perfino esagerato, visto che prima della Coppa America era poco più che uno sconosciuto. La cosa non piacque a Dunga e soprattutto agli altri due attaccanti, Branca e Borgonovo, che si sentivano già messi in secondo piano. Ai primi allenamenti in molti scossero la testa ed effettivamente le prime uscite dell’argentino furono deludenti: Batistuta non sembrava adatto al campionato italiano perché troppo grezzo tecnicamente. Qualche giornalista fiorentino tirò fuori la definizione di “Dertycia con i capelliâ€?, che era una specie di condanna senza appello. Dopo la sua prima esibizione a San Siro, Franco Rossi sul Giorno parlò addirittura di “bidone del secoloâ€?, mentre Lazaroni lo faceva giocare solo per le pressioni societarie, ma non era affatto convinto del suo valore. Tutto questo per dire che Batistuta si è conquistato da solo il successo e che nessuno gli ha mai regalato niente. Il suo grande segreto è stato migliorarsi giorno dopo giorno, non fermandosi mai. E quando dopo poche domeniche cominciò a segnare a raffica, anche chi non lo amava nello spogliatoio capì che doveva fare i conti con lui. Bati non ha mai cercato rivincite personali, ricordandosi però sempre di chi gli è stato accanto in quei difficili giorni dell’autunno 1991: Beppe Iachini, Gian Matteo Mareggini e Massimo Orlando.

IO E BATI
L’ultima volta che ci siamo visti è stata quando la Roma giocò a Firenze, nel febbraio 2002. Stavamo quasi per andare a sbattere l’uno contro l’altro ed era quindi impossibile ignorarci, così abbiamo alzato tutti e due lievemente la testa in un sofferto cenno di saluto. Questa “guerraâ€? con colui che considero il miglior giocatore della storia della Fiorentina, almeno da quando vado allo stadio, è uno di quei passaggi spiacevoli e perfino dolorosi della mia piccola storia professionale.
Eppure l’inizio era stato splendido. Nel febbraio 1992 venni incaricato di andarlo a prendere all’allenamento per accompagnarlo a La Nazione, dove avrebbe condotto un filo diretto con i tifosi. In macchina parlammo di tutto, stabilendo una confidenza che è andata poi rafforzandosi nei suoi primi anni fiorentini. Ricordo le sue partecipazioni al Ring dei Tifosi, quando organizzavamo la trasmissione registrata apposta per lui, oppure il regalo della cassetta audio con dentro i miei urli per i suoi gol e tanti altri piccoli episodi. La frattura tra noi ha una precisa collocazione temporale: metà luglio 1997.
Batistuta non voleva rimanere alla Fiorentina, perché altre squadre gli avevano promesso almeno il doppio di ingaggio e così si barricò in un albergo a Roma, in preda ad una vera e propria crisi di nervi: o gli davano più quattrini o considerava chiusa la sua esperienza in viola. Con la radio realizzammo una diretta fiume dall’hotel dove i Batistuta (c’era anche il padre) ricevevano i dirigenti in un crescendo quasi insostenibile di tensione. Ad un certo punto prese la parola Rinaldo e disse quello che tutti pensavano: «ma che crisi nervosa! Questo qui vuole solo più soldi e non gliene frega niente se ha un contratto già firmato, così come non gliene frega niente della Fiorentina». Apriti cielo! Tutti sentirono quell’intervento, anche e soprattutto gli amici di Batistuta. Alla prima uscita stagionale della Fiorentina di Malesani, io ero in campo per realizzare le interviste di Telemontecarlo e quando mi avvicinai a Gabriel, lui rispose che con me non avrebbe parlato a causa delle dichiarazioni di Rinaldo, che però, a quanto ne sapevo, non era ancora diventato il proprietario di Tmc.
Nell’estate successiva, il tormentone del rifiuto di tornare a Firenze si ripeté ed io moraleggiai un po’ sulla storia dei contratti da onorare e sul fatto che i soldi non sono tutto nella vita. Avevo ragione nella sostanza, ma ancora non sapevo cosa mi sarebbe capitato quaranta mesi dopo, con certa gente che pensava ai quattrini quanto e più di Batistuta, valendo però un decimo del campione argentino. Le cose stavano precipitando e così una sera di ottobre, esasperato da questa polemica, mi misi a sedere accanto a Bati nel viaggio aereo di ritorno da Lecce a Firenze. Parlammo per un’ora, tra la curiosità generale dei suoi compagni e degli altri giornalisti, arrivando ad un compromesso: se Rinaldo avesse chiesto scusa per aver tacciato Batistuta di venalità, i nostri rapporti sarebbero tornati normali. Il che, tradotto nella quotidianità, avrebbe voluto dire che smetteva di chiedere ai giornalisti della mia radio e della mia televisione di passare le sue interviste solo se io non fossi stato presente alla trasmissione. Si poteva addirittura ipotizzare che potessi ospitarlo in qualche programma e che i compagni di squadra del suo giro, chissà, forse avrebbero ricominciato a salutarmi anche quando lui era nei paraggi. Bati voleva inoltre che l’intervento “riparatoreâ€? avvenisse in un momento di grande ascolto. Non fu facile convincere Rinaldo a chiedere scusa, ma poi accettò, per il bene della radio e, credo, soprattutto per affetto nei miei confronti. Il “mea culpaâ€? andò in onda in un dopo partita, mentre eravamo collegati da Ginevra per seguire la sentenza relativa alla bomba carta di Salerno. Registrammo l’intervento e la cassetta fu portata dall’incolpevole Ceccarini al cospetto del divino capitano. «Questa me la metto sulle pa…», rispose Batistuta, decretando di fatto la fine dei nostri rapporti.
Nelle sue ultime stagioni fiorentine ci sono stati momenti perfino comici, tipo quando Bati aspettava in macchina fuori dagli studi di Canale Dieci la moglie Irina. Lei stava imparando a fare televisione e lui non voleva in nessun modo entrare negli studi, cioè nel territorio del “nemicoâ€?. Oppure quando depennò personalmente il mio nome dalla lista degli invitati alla festa del suo viola club, tra l’imbarazzo dei suoi “sottopostiâ€?, che proprio a me si erano rivolti per pubblicizzare al massimo la manifestazione. Certo non sono stato troppo furbo a rimarcare tutte le volte che qualcosa di Batistuta non mi piaceva negli atteggiamenti che teneva fuori dal campo, ma non ho mai smesso di esaltare in radiocronaca le sue incredibili qualità calcistiche. Quando nel maggio del 2000 seimila tifosi invasero il Palazzetto dello Sport per dire no alla sua cessione, un ragazzo fece il mio nome al microfono come simbolo dei nemici di Bati. Ero in studio a condurre la diretta e sentii una fischiata generale nei miei confronti che mi gelò il sangue. Ma avevano ragione loro, perché anch’io, da tifoso, tra Batistuta e Guetta non avrei avuto dubbi su come schierarmi: uno era il campione più straordinario degli ultimi trent’anni e l’altro solo un cronista che raccontava da quasi quattro lustri le partite dei viola. In questi casi non conta chi ha ragione, ma chi ha regalato emozioni.
Prima o poi anche l’immenso Batistuta appenderà le scarpette al chiodo e quel giorno, se sarà possibile e se lo vorrà, mi piacerebbe passarci insieme un’altra ora, come quel viaggio fianco a fianco da Lecce a Firenze, solo che stavolta dovrà essere davvero il punto di partenza per un nuovo rapporto.

CONSIGLIERE INASCOLTATO
A fine settembre la Fiorentina venne sconfitta in casa dalla Roma e i Cecchi Gori decisero di averne abbastanza di Lazaroni. Cominciò così un rifrullo di telefonate fra Roma e Firenze per tastare il polso ai giornalisti che contavano di più. Per la prima volta inserirono anche me nell’illustre lista, un po’ perché Mario continuava a seguire le mie radiocronache e un po’ perché il plenipotenziario del settore cinema, Sergio Bartolelli, aveva il figlio che giocava nella Primavera viola e voleva avere buoni rapporti con tutti quelli che conosceva. E fu proprio Bartolelli a chiamarmi il pomeriggio dell’esonero del tecnico brasiliano. «Siamo incerti tra Radice ed Agroppi, lei Guetta cosa ci consiglia?».
Agroppi lo avevo “scopertoâ€? radiofonicamente nel 1988, e da quell’anno tutti i lunedì commentava per noi il campionato. Nonostante il crescente successo televisivo alla Rai, aveva continuato a titolo totalmente gratuito una collaborazione di cui andavamo fieri. Risposi senza esitazioni: «Agroppi è la scelta giusta, prendetelo e non ve ne pentirete. A Firenze lo ricordano tutti volentieri». Avrei voluto aggiungere «tutti meno Antognoni», ma lasciai perdere. Ovviamente scelsero Radice, pare su consiglio del giornalista Lino Cascioli, ma appena quindici mesi dopo Agroppi arrivò lo stesso.

UE UE UE
Era l’intercalare di Maurizio Casasco, il nuovo direttore sportivo viola. Paracadutato nel dorato mondo calcistico dall’ex ministro Prandini, Casasco era l’uomo che (a parole) aveva una soluzione per tutto. Con i giornalisti applicava una regola vecchia come il cucco, dando ad ognuno di noi la sensazione di essere il depositario dei segreti viola. Certo non si può dire che fosse proprio un portafortuna per le squadre a cui dispensava i suoi illuminanti consigli: quattro squadre negli anni novanta e quattro retrocessioni, tra cui purtroppo quella della Fiorentina. Era comunque un tipo coraggioso. In quella stagione i viola incapparono in una serie di tre sconfitte consecutive, l’ultima delle quali davvero pesante, per quattro a zero a Cagliari. Il martedì dopo ai campini c’era aria di contestazione e così il prode Casasco immolò faccia e camicia alla causa viola. Incurante degli inviti alla prudenza, marciò con passo sicuro verso i tifosi, quando fu centrato in pieno da due uova marce provenienti dagli spalti. Un po’ schifato, si ripulì gli occhiali e tornò grondante di tuorlo negli spogliatoi: «ue, ue, ue – disse sconsolato – con certa gente non si può proprio parlare».

Era questa la squadra che ha perso col Torino?
Sì, va bene, un Montolivo, un Frey e un Gamberini in più, ma non basta a spiegare la metamorfosi totale di una formazione che a Genova è stata davvero grandissima.
Sono d’accordo con Prandelli: questa chicca la mettiamo dopo Eindhoven e ci serve a chiudere un anno importante e di grandi soddisfazioni.
Impressionanti Melo e Montolivo, bravissimo Santana, nessuno sotto il 6 e una vittoria più che meritata, al di là dei discorso di Mazzarri, che ha visto una Samp “a cui è mancata solo la fortuna di metterla dentro”.
Adesso stacchiamo calcisticamente la spina con la consapevolezza che la storia molto bella degli ultimi tre anni non so è ancora conclusa.
Ah, dimenticavo: e quelli delle verità assolute, quelli che “tanto Corvino e Prandelli divorzieranno a fine stagione”, quelli che “Mutu era meglio venderlo e Prandelli li mette tutti fuori ruolo”, quelli che si sono inventati il mestiere di sputasentenze e che oggi dicono il contrario di quello che hanno detto ieri, domani che diranno?

Questa l’ho saputa da fonte autorevole in settimana ed è folle e divertente allo stesso tempo: Moratti ha a libro paga 18 (diciotto) fisioterapisti!
Per dare un senso delle proporzioni, il Milan ne ha nove e la Fiorentina tre.
Mi immagino le scene alla Pinetina, dove qualcuno di questi diciotto luminari non conosce neanche tutti gli altri diciassette e ipotizzo che il costo complessivo dell’esercito superi l’ingaggio di Mutu.
Pare che davvero ci siano i turni per seguire la squadra, ma qualcuno dei giocatori non si fida di nessuno dei diciotto e preferisce la cura del proprio fisioterapista, che magari pensa di diventare il diciannovesimo (però così dovrebbe stare in tribuma, anche con la panchina lunga).
Non licenzia mai nessuno Moratti e se per caso lo fa, vedi alla voce Mancini, poi continua a pagare regolarmente lo stipendio.
Ma dove pensiamo di andare in un calcio del genere?

Oggi è il classico giorno in cui sono sempre più convinto di essere nel giusto quando limito al massimo l’intervento degli ascoltatori nel Pentasport.
A parte il fatto che così è troppo facile riempire lo spazio e fare le trasmissioni, se avessi aperto le linee o dato la parola a presunti opinionisti onnipresenti, che ormai occupano militarmente l’etere, avrei ascoltato le seguenti idiozie:
Pazzini e Osvaldo hanno volontariamente dato forfait, il perché non si sa , ma qualcuno è certo che sia nadata così;
Prandelli è un incapace, che non capisce il reale valore di Da Costa, uno per cui Mourinho avrebbe fatto follie, mette tutti i giocatori fuori ruolo e per colpa sua non vinceremo mai niente;
Prandelli non lancia mai i giovani e fa giocare sempre gli stessi, per questo i grandi campioni come Pazienza e Blasi se ne vanno da Firenze;
Prandelli e Corvino si odiano e a causa del loro pessimo rapporto abbiamo avuto tutte queste stagioni fallimentari;
Corvino non ne azzecca una in campagna acquisti, altrimenti non avrebbe compratto tutti questi giocatori che non vanno neanche a spingerli e in più ha venduto Maggio e Toni: molto meglio Baldini.
Può bastare o devo andare avanti?
Eh sì, il mondo è bello perché…avariato.

E scusate per le mancate risposte, ma organizzare il Pentasport, le pillole e trovare le risorse per alimentarlo economicamente mi permettono solo quella mezz’ora di tempo quotidiana per leggere e approvare, oltre che per proporre nuovi argomenti.

Sconfitta ed eliminazione ingiusticabile.
No, così davvero no, non esiste spiegazione palusibile.
Da Costa e Almiron dovrebbero aver chiuso la loro impalpabile esperienza in viola e forse ha ragione Prandelli a dire che siamo un po’ troppo fissati con Jovetic, che per inciso ancora non ha fatto un gol.
E se non segnano quei due, sono dolori.
Salverei solo Kuzmanovic e Storari, per la parata su Ventola improvvidamente lanciato da Pasqual.
Per il resto un pianto, con una particolare menzione rivolta ai già citati Da Costa e Almiron, oltre a Santana e Felipe Melo, che ha rischiato pure di essere cacciato.
Cerchiamo di riprenderci presto perché un’altra botta del genere risulterebbe assolutamente insopportabile.

P.S. Ottimo Leo in radiocronaca, ma lo sapevo già…

La solita Coppa Italia, con il sottoscritto, Paloscia e pochi altri a darle importanza, salvo poi rammaricarsi tutti in caso di mancato raggiungimento della finale.
Ci pensavo lunedì mattina: questo gruppo sta ottenendo risultati straordinari, soprattutto s rapportati alla storia della Fiorentina, e sto parlando di continuità, ma non ha ancora vinto niente.
Voglio dire che la Fiorentina di Ranieri, via via che passa il tempo, ci rimane nella memoria per quella Coppa Italia e quella Supercoppa, e ancora io mi ricordo del succeso del 1975, ottenuto all’Olimpico contro il Milan partendo sfavoriti.
Per questo sarebbe ora di alzare qualcosa, per questo non mi iscriverò mai al partito che vorrebbe uscire dall’Uefa per raggiungere il quarto posto in campionato.
Perché alla fine restano solo quelli, i trofei conquistati (o gli scudetti vinti, ma in questo caso sto sognando…).

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