Attualità


Ci vorrebbe un genio che inventasse il manuale del perfetto genitore.
Oddio, mi sono allargato: basterebbe quello del genitore che fa meno danni possibile e già il genio diventerebbe milionario con i diritti d’autore.
Per esempio: qual è il tempo giusto per stare agli “elettronici”, come chiamo con Cosimo l’intera famiglia di aggeggi che comprendono, tablet, youtube e, soprattutto, i famigerati (per me) videogiochi?
Due ore?
Diciotto?
Dieci minuti?
E chi lo sa?
Si legge di tutto, dallo sviluppo di determinate facoltà mentali, all’abbrutimento che potrebbe trasformare il pupo in un futuro e potenziale tifoso della Juve.
E allora si vive tutto questo con un ondivago senso di colpa, cercando di imporre regole da fabbrica inglese dell’ottocento: per ogni ora di videogioco, un’ora di lettura.
Il rischio naturalmente è quello di essere denunciato al Telefono Azzurro, di cui Cosimo ancora per fortuna non conosce il numero.
L’alternativa è arrendersi ed essere fatti prigionieri dalla PS4, PS5, PSspeciale, Xbox, e come cavolo si chiamano tutte le varie piattaforme diventando anche noi Supermario, ma quello vero, non quello che gioca nella Fiorentina.

Quanto mi manca Manuela, quanto avrei voluto vederla sentirla in questo ultimo anno, farmi consigliare, ascoltare le sue parole mai banali.
E quanto corre in fretta il tempo: sono già passati cinque anni da quando è “dovuta partire” e uso questa espressione, partire, perché se fosse dipeso da lei non se ne sarebbe mai andata.
Attaccata alla vita, combattente fino a quando le forze l’hanno sorretta, capace di dolcezze che chi l’ha conosciuta solo come polemista calcistica nemmeno riesce ad immaginare.
A volte mi sorprendo a pensare dentro di me, e nell’ultimo anno più che mai: cosa avrebbe detto Manuela?
Sarebbe d’accordo con quello che sto facendo o no?
Questa è l’eredità più bella che una persona può lasciare alle persone a cui ha voluto bene, altro che soldi, case o gioielli.
“Voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi”.

Per cosa riuscite ancora ad emozionarvi?
Non parlo solo ai coetanei, ma anche a chi è più giovane, pregando di fare molta attenzione a questa parola: ancora.
Ormai siamo rotti a tutto, sappiamo ogni cosa, abbiamo provato mille esperienze cogliendo pochissimo di quello che di bello la vita ci offre ed il risultato è che ci sfuggono le tante occasioni per provare un brivido.
La distinzione tra noi maschietti e l’altra metà (migliore) del cielo è per fortuna oggi molto meno netta di quando da ragazzo cominciavo come tutti ad emozionarmi e vigeva la regola non scritta ma quanto mai immanente secondo cui l’uomo non piange.
Non è un caso che una delle pubblicità più penetranti di quei tempi fosse quella “dell’uomo che non deve chiedere mai”, nel senso che tutto gli era dovuto, pare per diritto divino.
No che lo dicessero apertamente, quello no, ma lo pensavano tutti.
Quarant’anni dopo si potrebbe usare la stessa formula, ma con un significato “leggermente” diverso: l’uomo non deve chiedere mai perché nessuno, ma proprio nessuno, lo sta a sentire…
Soprattutto (e giustamente) se lui non si mette sullo stesso livello della sua compagna.
E comunque da un bel po’ di anni ci siamo concessi anche noi uomini questo lusso: possiamo piangere ed emozionarci liberamente, qualcosa che pare non dispiaccia neanche troppo a chi dobbiamo piacere, anzi.
Se ce lo avessero detto prima, ci trattenevamo meno e vivevamo meglio.

Esco, prendo la moto, comincio la mia giornata: tranquillo.
Il massimo che mi potrà succedere sarà un contrattempo sul lavoro, un problema da affrontare con i figli, una mia distrazione a cui dovrò porre rimedio perdendo un po’ di tempo.
Previsioni per il futuro?
Più o meno sulla stessa linea, con alti e bassi, come tutti.
E se questo normale ordine delle cose venisse rovesciato dall’incontrollabile rabbia di quelli che una moto l’hanno vista solo in televisione (che non hanno), che mangerebbero una settimana con quello che ho nel frigo a cui ogni tanto do un’occhiata distratta?
Se la massa sempre più imponente di poveracci che abbiamo “domiciliato” nelle stazioni ferroviarie e nei centri di accoglienza decidesse che si è rotta le scatole di aspettare che arrivi il proprio turno per stare bene?
Non ho soluzioni, ma cominciare a pensarci non fa male.

In teoria dovrei e potrei fare anche meglio perché non fumo e non bevo.
Per quanto riguarda il sesso mi appello invece al quinto emendamento e d’altra parte mica so quanto e come esercita il maestro.
Francesco Guccini ha compiuto ieri 75 anni, me lo ha ricordato l’ottimo Piero Ceccatelli, malato come me del “piccolo baccelliere” di Pavana, un grande in tutti i sensi.
Sì, non disponendo chiaramente del suo talento, vorrei arrivare alla sua età con lo stesso senso della misura.
Un uomo che ha saputo cogliere il momento giusto per ritirarsi e che poi non è più tornato indietro perché davvero (purtroppo) non canta più.
Una persona che se la guardi o che se hai avuto la fortuna di conoscere anche solo per un’ora, davvero ti regala l’impressione di essere centrato sull’essere piuttosto che sull’avere e ditemi voi in quanti siamo così al mondo (vabbeh, ho avuto un attacco di megalomania e mi sono autopromosso).
Stamani, nella consueta corsa mattutina delle 5.30, mi sono sparato Bisanzio, Un altro giorno andato e poi Celentano che cantava splendidamente Vite: fissato?
Un po’ sì, ma chi ama Guccini mi capirà in tutto e per tutto.

Fate la vostra scaletta preferita.
Sì, lo so che si dovrebbe scrivere play-list, ma ve lo immaginate Guccini in una play-list?
Vai per la scaletta…

Solo a scriverlo quel numero mette paura: 55.
Vabbeh, ancora non ci sono arrivato, ma se li chiami rispondono.
E poi si può avere cinquanta anni (ok, ho capito: sono cinquantacinque, non infierite) in tanti modi diversi: pensare e agire da vecchi, comportarsi da insulsi adolescenti, cercare di essere centrati nel corso del nostro transito terrestre.
Tutta questa pappardella per ritardare il mio vero sentimento: la gelosia.
Eh già, perché accade che per fortunate coincidenze mediatiche abbia la possibilità di proporre a Valentina e Camilla di poter conoscere Ligabue.
Entusiasmo alle stelle, azioni del babbo in netto rialzo e una domanda che sorge spontanea: “scusate ragazze, ma è più vecchio di me! Che ci trovate di così bello?”.
La Vale è stata più pronta e ha detto che canta meglio del sottoscritto (lo sospettavo, ma lei mi ha dato la certezza…), la Cami ha scosso la testa pensando che non ci fosse niente da fare se davvero non capivo la differenza tra me e lui.
L’incontro è stato come mi aspettavo, altrimenti non avrebbe tra i suoi riferimenti Guccini: alla mano, tranquillissimo, quasi l’inquilino della porta accanto.
Fino a quando regge lui, abbiamo buone speranze anche noi comuni mortali che stiamo vivendo, dicono, il meglio della nostra vita.

A parole siamo tutti bravi, specialmente con la vita degli altri.
Poi facciamo i conti con noi stessi, incontrando inevitabilmente il nostro peggiore nemico.
In quel preciso istante le cose cambiano radicalmente: puoi provare ad avere i migliori propositi, ma se pensi di aver subito un torto, se ritieni ingiusta una situazione, ti monta la rabbia.
Da lì al rancore il passaggio è molto veloce e può essere devastante, per te e per chi ti sta intorno.
Ed è qui che si vedono gli amici (o le amiche): sono quelli/e che ti ascoltano ripetere la stessa storia dieci, cento volte e non si stancano.
Loro, solo loro, sanno dirti dove stai sbagliando, non hanno paura di non darti ragione, di non compiacerti, affrontano il rischio dello scontro.
Il rancore è veramente il peggiore dei sentimenti: più distruttivo dell’odio, che nella sua negatività conserva una propria nobiltà e in qualche modo si eleva.
Liberarsene è il primo passo verso una vita migliore (stavo per scrivere felice, ma non vorrei allargarmi troppo).

Città veramente bellissima e girare con Valentina regala sensazioni uniche: quando i figli crescono, se sei riuscito a seminare, il confronto diventa molto interessante.
Certo, mi piacerebbe avere anche la Camilla e Cosimo, ma non esageriamo, magari la prossima volta…
Dall’alto della città c’è molto viola, qualcosa di beneaugurante per domani sera, anche se qui davvero ci snobbano.
E’ una di quelle trasferte in cui pensi alla fortuna che hanno i giornalisti: girare il mondo ed essere pure pagati per farlo.
Sì, lo so, il Dnipro era più semplice, ma siccome siamo a “soffrire” per questa sera lasciatemi concentrare sulla paella…

Li ho sempre temuti, forse perché non pensavo di avere la forza interiore di affrontarli, quasi non credessi fino in fondo in me stesso.
A volte li cerchi, anche se non sembra.
A volte arrivano senza preavviso, e allora è molto più difficile fronteggiarli.
Esiste un senso di responsabilità verso chi lavora con te e verso i tuoi figli, una spinta interiore che ti urla di reggere anche “quando ti alzi e ti senti distrutto” e che ti impone di farti forza e “di andare incontro ai tuoi giorni”.
Ogni esperienza difficile ti rende migliore se non svicoli, se non hai paura di affrontare la sfida che la vita ti propone.
Ed è una lotta estenuante, molti di voi lo sanno benissimo, l’unica cosa che posso dire con certezza è: non mollate.
Mai.

Alle una di notte entri nella loro stanza perché vedi la luce accesa e li trovi a messaggiare.
La mattina alle sei con un occhio dormono e con l’altro inviano spunti, idee, (si spera), oppure coltivano emozioni e smaltiscono delusioni su smartphone e similari.
La cosa più impressionante sono le dita: velocissime, da campioni mondiali di dattilografia.
Dita che compongono frasi senza guardare la tastiera e, dico la verità, un po’ li invidio.
E’ il mondo sommerso dei nostri figli, in cui non è permesso entrare (e vorrei vedere!), così come bisognava bussare forte quando noi stavamo ore al telefono, però interagivamo con una persona sola.
Qui è un’ammucchiata mediatica generale: ci sono tutti, e tutti parlano, in un traffico ormonale da far girare la testa.
Sono molto diversi da noi, non so se migliori o peggiori, certamente con altri ideali, ma con la nostra stessa inquietudine di allora, perché “ha un prezzo salato diventare grandi”.

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