1990/91

Il mio primo contatto con Mario Cecchi Gori risale all’aprile del 1990. La Fiorentina doveva giocare una partita decisiva per la salvezza contro l’Inter a Milano e si parlava sempre più insistentemente di un interesse del produttore per l’acquisto della società. Chiamai Roma e gli chiesi se gli sarebbe piaciuto seguire in diretta la radiocronaca. Mi sorprese il fatto che in un paio di minuti potessi parlare con uno dei più importanti uomini di cinema al mondo, ma evidentemente la parola Fiorentina apriva porte altrimenti sprangate a tanti aspiranti attori o registi. Mi rispose gentilmente di no, perché non voleva dare l’impressione di forzare i tempi di una trattativa che ancora non decollava. Due settimane prima a Roma, a pochi minuti dall’inizio della gara con i giallorossi, Mario Cecchi Gori aveva avuto un fitto colloquio “a cielo apertoâ€? con Flavio Pontello, un incontro che era stato definito dal Conte “un puro atto di cortesia verso una persona squisitaâ€?. Seppi del passaggio di proprietà della Fiorentina due giorni prima dell’annuncio ufficiale, ma avevo giurato alla mia fonte, l’avvocato Lapo Puccini, che non avrei detto nulla e rinunciai allo scoop. Tutti aspettavamo Cecchi Gori come un liberatore e non a caso venne immediatamente insignito della carica di “Magnifico Messereâ€? al calcio storico fiorentino. Fu un grande uomo ed un presidente sfortunato, con un difetto indipendente dalla sua volontà…

TELEBULGARIA
Nella stagione precedente avevo ricevuto per la prima volta offerte di lavoro da parte di una radio concorrente. Il gruppo Poli, proprietario di Rete 37, aveva intenzione di allargarsi nella radiofonia e voleva che andassi a trasmettere da loro. Non ascoltai nemmeno la proposta, ma la cosa fece molto arrabbiare Rinaldo, che in un soprassalto d’orgoglio comprò uno spazio a Tvr-Teleitalia per trasmettere il Pentasport in contemporanea televisiva. Addio dunque alle telefonate di Isler il sabato sera, alle tanto contestate pagelle e a “Calcio Parlatoâ€?. Mi dispiaceva molto lasciare Rete 37, ma capivo che non potevo fare tutto e così cominciammo la nuova avventura.
Quando oggi rivedo le cassette di quei tre anni di trasmissione, provo qualcosa a metà tra la vergogna e la tenerezza. Non avevamo immagini e così le uniche due telecamere dell’emittente inquadravano per novanta minuti degli stoccafissi che rivolgevano domande ad un solo ospite, parlando ogni tanto di tattica. A Pestuggia si erano intanto affiancati il fedelissimo Luis Laserpe e Ruben Lopes Pegna e così provai per la prima volta il brivido di dirigere una mini-redazione.

ORFANI DI BAGGIO
La prima fregatura calcistica di Cecchi Gori fu Borgonovo, strapagato al Milan dell’amico Berlusconi e tornato a Firenze completamente diverso dal giocatore rapido di due anni prima. La seconda fu Lacatus, che aveva segnato un paio di reti con la Romania ai Mondiali, ma che a Firenze si distinse soprattutto per le frequentazioni di tutti i night club nella zona del senese, dove abitava. In campionato, la prima pesantissima maglia numero dieci venne indossata da Zironelli, un giocatore normale bersagliato dalla sfortuna. In campo e fuori comandava Dunga, mentre Lazaroni cercava a fatica di capire come diavolo si giocasse in Italia. Su di lui pesava un grosso equivoco: aveva sì allenato la Nazionale del suo Paese, ma alzi la mano chi si ricorda, a parte forse Zagalo, il nome di un tecnico brasiliano. Credo che tra qualche anno anche Scolari, l’ultimo C.T vittorioso ai Mondiali, sarà dimenticato. Insomma, stare seduto sulla panchina del Brasile non voleva certo dire essere degli strateghi straordinari ed infatti Lazaroni deluse un po’ tutti. E se a novembre non fossero arrivati Orlando e Fuser, la Fiorentina sarebbe probabilmente retrocessa con due anni di anticipo.

UN SOGNO
Nell’ottobre del 1990 si avverò un sogno: giocare allo stadio, davanti a quarantamila persone. Debbo tutto questo a Carlo Conti, che mi inserì nella lista dei Vip (o presunti tali), che avrebbero affrontato la Nazionale cantanti di Morandi e Ramazzotti. Quel giorno mi svegliai alle cinque del mattino già in preda di una fortissima emozione. E’ incredibile salire le scalette del sottopassaggio del Franchi e trovare tutta quella gente sugli spalti. Ovviamente la mia presenza passò del tutto inosservata, però fu bello sentire annunciare il nome dallo speaker, come se fossi uno vero. Passati i primi momenti di smarrimento, mi ambientai bene. Anzi, fin troppo bene, perché ad un certo punto, allargando le braccia, rimproverai platealmente Antognoni, reo secondo me di non avermi passato correttamente il pallone. Mi ero chiaramente montato la testa e venni giustamente fischiato impietosamente dalla Maratona. Quando rividi l’azione, mi vergognai di me stesso: il passaggio era perfetto, ero io che sembravo filmato alla moviola.

PRIME CONTESTAZIONI
Ero piacevolmente abituato ad un consenso generale. I tifosi gradivano le mie radiocronache e pazienza se qualche volta i giocatori, imbeccati da mogli, fidanzate e amici, si arrabbiavano. Tutto rimaneva nei limiti della normalità e del rapporto civile. Quell’anno invece qualcosa cominciò a guastarsi, a causa delle critiche che rivolgevo a Lazaroni e al suo modo di giocare. Poiché sono sempre stato poco diplomatico, ci misi appena un paio di mesi prima di sbottare in un «tanto si sa che è Dunga a fare la squadra! Ormai il capitano ha un suo vero e proprio clan». Avevo i miei bravi informatori nello spogliatoio e c’era del vero in ciò che dicevo, ma logicamente tutto questo non poteva che mandare su tutte le furie il gruppo di Dunga, che cominciò a farmi la guerra.
Un pomeriggio di dicembre mi arrivò una telefonata di avvertimento di Borgonovo, con cui avevo ottimi rapporti. «I tifosi sono inferociti con te – mi disse – se non la smetti con le critiche a certi giocatori, specialmente a Nappi e Salvatori, qualche testa calda ha giurato di fartela pagare. Forse è meglio se ti dai una calmata». Rimasi di stucco e mi attaccai al telefono per capire quanta verità ci fosse nel “consiglioâ€? di Borgonovo (che fra l’altro non faceva più un gol neanche per sbaglio).
Dodici anni dopo posso dire che me la presi troppo, perché dovevo capire subito o quasi che si trattava di un modo neanche troppo originale per condizionarmi, ma era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere ed essere attaccati non è mai piacevole. Continuai a dire quello che pensavo, perdendo il saluto di Dunga e subendo un paio di rifiuti di Lazaroni a venire ospite al Pentasport. Dormii lo stesso la notte ed imparai la lezione.