I 40 giorni passati in fabbrica quando non avevo ancora 16 anni e volevo pagarmi le vacanze da solo sono stati una pietra miliare della mia vita futura: terribili, ma andrebbero non solo rifatti, ma resi obbligatori nell’adolescenza per la gran parte della categoria dei futuri giornalisti che si lamenta di tutto e per tutto

Cinque ore al giorno a veder passare bombolette spray mettendo dentro quattro biglie, tipo Charlie Chaplin in Tempi Moderni

Intervallo di mezz’ora e abbrutimento totale e formativo per un ragazzo. Quando uscivo alle 13, avevo però il mio motorino e potevo raggiungere gli amici in piscina, ma gli altri, gli adulti, no, non potevano, perché avevano a casa figli che aspettavano fine mese per far quadrare i conti e cercavano pure di fare gli straordinari

Fin dal 1976 mi chiedevo, e mi chiedo, con assoluta ammirazione e altrettanto rispetto: ma come fanno a svegliarsi la mattina e pensare che li aspetta otto ore così, ripetitive, spesso sfinenti fisicamente?

Fanno, soprattutto devono farlo, perché non tutti possono essere influencer, calciatori, consulenti o giornalisti

Ed è per questo che ieri sera mi è quasi venuto da piangere nel vedere l’esultanza degli operai dell’indotto Stellantis quando è stato deciso che la chiusura della loro fabbrica sarebbe stata posticipata di un anno e che quindi sarebbero tornati a lavorare in condizioni che temo non siano troppo diverse da quelle che ho conosciuto 48 anni fa

Felici di tornare laggiù, dove ci si consuma giorno per giorno, ma anche là dove la dignità di poter lavorare è l’unico valore che veramente conta