1994/95
Dopo la morte di Mario, tutto il potere era nelle mani di Vittorio e dei suoi fedelissimi: Sergio Bartolelli, Luciano Luna e Paolo Cardini. Non si parlava ancora di acquistare televisioni nazionali e quindi si viveva tranquilli. Al “gruppo” bastava e avanzava Canale Dieci, dove i giochi di potere erano alquanto limitati. Cardini e Luna si erano divisi i compiti: il primo controllava la parte politica, il secondo la Fiorentina. Grazie al gioco dei resti elettorali, Vittorio era riuscito a diventare senatore nelle file del Partito Popolare, all’opposizione. Nella nottata dello spoglio dei voti, la tensione a Canale Dieci era alle stelle: e se nonostante tutti gli sforzi non fosse passato? Ad un certo punto arrivò a Villa Cora Bruno Altissimi, un produttore cinematografico indipendente dell’entourage romano, e gridò: «Aho, ce l’avemo fatta per un pelo di f…, adesso famose du spaghe». Nei mesi successivi all’approdo in Parlamento, il neo-senatore cominciò a sviluppare la pericolosissima sindrome Berlusconi. Secondo i suoi uomini, Vittorio era addirittura più geniale di Silvio e il tempo gli avrebbe certamente dato ragione. Intanto, la stagione del ritorno in serie A si annunciava piena di speranze.

MONDIALE IN CANTINA
Il pomeriggio della semifinale mondiale tra Italia e Bulgaria me ne stavo tranquillo in Versilia, pregustando lo spettacolo serale, quando arrivò la telefonata di Grassia: «hanno appena comprato Rui Costa, arriverà alle 19 a Roma e vedrà la partita a casa di Cecchi Gori. Bisogna in tutti i modi andare là, abbiamo già chiamato l’operatore per l’intervista». Costrinsi il buon Selvi a montare in macchina con me e partimmo di controvoglia. Arrivammo in via Platone cinque minuti prima del fischio di inizio della semifinale e venimmo fatti accomodare senza troppi complimenti nelle cantine della villa, dove per fortuna era stato installato un piccolo televisore. Solo nell’intervallo venni ammesso nel salone delle feste, mentre Francesco, evidentemente non ritenuto all’altezza, rimase di sotto a sgranocchiare qualcosa. Notai, con preoccupante sorpresa per il mio futuro professionale a Canale Dieci, che era presente anche Sandrelli e venni quindi presentato da Vittorio a Rui Costa come «quello che quando segna la Fiorentina urla goool». Avrei voluto rispondere a Cecchi Gori che avevo anche qualche altra funzione nella vita, che come lui ero addirittura laureato, ma tacqui per non turbare l’armonia idilliaca della serata. Finita l’intervista, salutai e tornai nelle cantine a vedere la partita con Selvi. Nessuno, d’altra parte, mi aveva chiesto di rimanere.

FUORICLASSE
Credo davvero che Rui Costa, come Toldo, sarebbe riuscito in qualsiasi altro campo della vita. Per la fortuna sua, e di noi che lo abbiamo visto giocare per sette anni, ha scelto di diventare un calciatore. In tre mesi parlava l’italiano meglio degli stranieri che stavano da tre lustri in Italia, e in poche settimane aveva già capito Firenze. La differenza sostanziale tra Bati e Rui è che il portoghese non considera il calcio un lavoro. In lui si respira chiaramente la voglia di pallone e mentre il fuoriclasse argentino vedrà in televisione sì e no una decina di partite all’anno, Manuel non perde mai una gara importante. Sono profondamente differenti anche nella disponibilità verso i tifosi. Rui si porta dietro la voglia che aveva da ragazzino di entrare nel mondo del pallone. Con i bambini poi è instancabile: foto, autografi, dediche, potrebbe passare ore insieme ai suoi piccoli fans. C’è una dolcezza di fondo nel suo carattere che lo fa assomigliare un po’ a Baggio. Nel 1995, dopo l’ennesima sostituzione, mandò a quel paese Ranieri; capì di aver sbagliato e convocò per il lunedì una conferenza stampa per scusarsi di aver mancato di rispetto al tecnico e soprattutto all’insalutato Robbiati, che entrava al suo posto.
I nostri rapporti sono stati ottimi fin dall’inizio, con picchi in alto particolarmente gradevoli. Solo se era con Batistuta, negli ultimi due anni dell’argentino a Firenze, Rui dimostrava una freddezza che un po’ mi infastidiva. Ad un certo punto le cose precipitarono, in gran parte per colpa mia. Mi ero infatti arrabbiato perché, dopo una partita di Champions Leagues, Rui Costa aveva saltato la nostra postazione. Secondo me (ed il mio solito complesso di persecuzione) l’aveva fatto apposta e non capivo il perché. Siccome poi Rui attraversava un momento difficile e non riuscivo più a portarlo in trasmissione, mi convinsi che esistesse tra noi una frattura che io stesso andavo ingigantendo. Il punto di non ritorno lo toccai una sera al Pentasport, quando commentai il pugno quasi omicida di Ferrigno del Como al modenese Bertolotti. Con un paragone assolutamente infelice, misi in relazione il livello di esasperazione che aveva raggiunto il calcio con il fatto che Rui Costa mi aveva tolto il saluto. Non c’entrava niente, era solo lo stupido sfogo di una persona delusa, ma lo avevano ascoltato decine di migliaia di persone. Per fortuna, la mia presunzione non mi impedì di capire l’errore e così un pomeriggio di dicembre, senza farmi preparare il terreno da nessuno, chiesi a sorpresa di parlare con lui. Non volevo interviste, ma solo riprendere le antiche consuetudini. Fu un colloquio aspro e risolutore, in cui ammisi le mie colpe, chiedendo lealmente scusa. I rapporti tornarono normali e la sua ultima apparizione in una televisione fiorentina fu al Ring dei Tifosi, il giorno dopo la vittoria in Coppa Italia. Me lo aveva promesso in caso di successo e, al contrario di altri, Rui Costa è un uomo che sa sempre mantenere la parola data.

SE SEGNI SETTE GOL…
… ti faccio conoscere Sharon Stone. Lo aveva promesso Vittorio a Marcio Santos, e chissà se la splendida attrice americana ha mai saputo di essere diventata un “premio di produzione” molto particolare. E poi, che voleva dire “ti faccio conoscere”? Una volta conosciuta, cosa sarebbe successo? Forse per evitare di rispondere all’imbarazzante quesito, Marcio Santos di gol ne fece appena due, più due autoreti che misero il timbro d’autore (era appena diventato Campione del Mondo) alla banda del buco, cioè l’allucinante difesa della Fiorentina. Il povero Toldo subì infatti ben 57 reti, con un crescendo finale impressionante, e Marcio Santos venne misteriosamente ingaggiato dall’Ajax, dove in pratica non giocò mai.

IL RING DEI TIFOSI
In quella stagione decollò definitivamente il Ring, ideato insieme a Luna, a cui piacevano i tifosi alla Ciuffi, quelli che sfottevano in televisione a suon di battute. La trasmissione venne immediatamente considerata una mina vagante dagli altri dirigenti viola, proprio perché affidata alla spontaneità di chi vi partecipava. Dopo le prime quattro puntate dell’anno della B, il vice presidente Ugo Poggi suggerì a Vittorio di sopprimerla. «Tu cosa ne pensi?», mi chiese Cecchi Gori nello spogliatoio del Franchi, mentre aspettavamo di giocare una partita di beneficenza contro la Nazionale cantanti. «Il programma funzione, Vittorio – gli risposi – è quello che fa gli ascolti più alti». Ed era vero, solo che spesso creava dei casini, soprattutto a causa della mia conduzione un po’ “scapigliata”. Devo riconoscere a Grassia e Sandrelli il grande merito di essersi opposti a tutti i tentativi di cancellazione, che arrivavano dal versante Cardini. E dopo poco tempo, lo stesso Poggi diventò un estimatore, non perdendosi una puntata. Qualche volta si lamentarono anche Giancarlo Antognoni e Oreste Cinquini, che nel frattempo aveva preso il posto dell’indimenticabile dottor Giuliani.
Resterà nella piccola storia di Canale Dieci la telefonata che ricevetti proprio da Cinquini al termine di una puntata in cui i tifosi presenti avevano espresso il loro dissenso per l’arrivo in maglia viola di Aldo Firicano, già ingaggiato a parametro zero dal Cagliari.
«Ti rendi conto – mi disse Cinquini – che adesso Firicano non verrà più: lo hanno già avvertito che a Firenze non lo vogliono e tutto questo per colpa tua»
«Accidenti Oreste – gli risposi – ma allora il Ring è proprio seguito…»
«David, non fare lo spiritoso, domani parlerò di tutto questo con Luna».
Ah ecco, mi sembrava strano.